Quando nel 1978, Neil Young scrive insieme a Jeff Blackburn My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue), probabilmente sa di avere per le mani una grande canzone, ma non di avere scritto in realtà un compendio di storia e filosofia del rock. Il testo del brano (pubblicato sull’album Rust Never Sleeps del 1979) è infatti uno dei più celebrati di sempre, conosciuto praticamente a memoria da ogni rocker che si rispetti, oggetto di un incalcolabile numero di articoli che ne spiegano l’esegesi e ne sviscerano il contenuto.
Il merito di tanta gloria è tutto del buon Neil, le cui liriche, nello specifico, si propongono come una sintesi quanto mai equilibrata di versi criptici, enigmatici e allusivi e di slogan giovanilistici di forte presa emotiva. Non è un caso, infatti, che l’album in cui My, My, Hey Hey è contenuta si intitoli Rust Never Sleeps (la ruggine non dorme mai), frase rubata a una pubblicità per un prodotto antiruggine, da cui Young fu letteralmente folgorato, tanto da farne il monito cardine del suo ragionamento: il tempo passa inesorabile, il rischio non è solo quello dell’invecchiamento fisico, ma soprattutto quello della corrosione artistica. Il rock, e l’onestà intellettuale che ne sta alla base, sono le uniche vie di salvezza.
Ecco spiegato il primo verso della canzone, rock n' roll is here to stay/it’s better to burn out than to fade away (il rock ‘n‘ roll è qui per restare, è meglio bruciarsi in fretta che spegnersi lentamente), probabilmente uno fra i più famosi e incisivi di sempre. Parole che, peraltro, non possono non richiamare alla memoria l’urlo di rabbia generazionale contenuto in My Generation degli Who: I hope I die before I get old! (spero di morire prima di diventare vecchio). Mentre Daltrey, però, cantava il disagio di una gioventù compressa da convenzioni reazionarie, pronta a morire piuttosto che ingrigirsi negli stereotipi della società conservatrice britannica, i versi di Neil Young esplicitano piuttosto il timore di un imborghesimento artistico, dal quale è possibile tenersi lontani solo percorrendo con onestà la strada del rock, fonte di eterna giovinezza (concetto ribadito anche nell’ultima strofa della canzone, in cui Young canta: "rock ‘n’ roll can never die").
Se diamo per buona questa interpretazione, si può spiegare anche perché il verso “it’s better to burn out than to fade away” viene citato esplicitamente nella lettera d’addio, scritta da Kurt Cobain poco prima di togliersi la vita: “Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla…- scrive il leader dei Nirvana - A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco…ricordate, è meglio bruciarsi in fretta che spegnersi lentamente.“ E a My My Hey Hey deve aver pensato anche Eddie Vedder, quando in Immortality, la canzone che si dice dedicata all’amico Cobain, pronuncia il verso sublime: “Some Die Just To Live”(qualcuno muore proprio per vivere).
Si diceva all’inizio che My My Hey Hey non solo traccia chiaramente i caposaldi della filosofia rock, ma in qualche modo ne racconta con icastica efficacia anche la storia. Il verso “The King is gone but is not forgotten/This is the story of Johnny Rotten“ riassume meglio di qualsiasi saggio o enciclopedia di genere, trent’anni di storia. Il Re (The King) è ovviamente Elvis Presley (morto poco tempo prima che la canzone venisse concepita), che rappresenta la nascita e la diffusione del rock’ n’ roll, e la grande tradizione americana. Adesso, però, è esploso il punk, e bisogna narrare un’altra storia, la storia di Johnny Rotten, leader dei Sex Pistols. C’è una continuità fra le due grandi epopee che non può essere ignorata: da Elvis a Rotten, vecchi e nuovi eroi continuano a raccontarci una favola rock che vive tanto nel ricordo di un passato imprescindibile, quanto nei fermenti creativi (e distruttivi) della nascente leggenda punk (a cui Neil Young guardava con estrema attenzione e entusiasmo).
My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) che apre la prima facciata del live Rust Never Sleeps (disco dal vivo ma con brani inediti), viene riproposta in versione elettrica alla fine dell’album, con il titolo modificato in Hey, Hey, My, My (Into The Black). I due brani sono due facce della medesima medaglia, anche se nella versione elettrica il testo cambia leggermente.
Quest’ultima canzone era stata pensata da Neil perché voleva che l’essenza del rock, quella debordante energia primitiva, fosse letteralmente “buttata addosso” agli spettatori dei concerti con un volume assordante. Per raggiungere questo risultato, la chitarra elettrica di Young, già abbondantemente distorta, venne dotata di un Octaver, un congegno chiamato anche Mu-Tron, in voga negli anni ’70, che consentiva di amplificare al massimo le distorsioni. L’effetto, ne converrà chiunque conosca il brano, è davvero inusuale, e viene difficile, per quanti tentativi mnemonici si facciano, ricordare un suono di chitarra più peso di questo. Per la cronaca, dopo l’uscita della canzone, il rocker canadese prenderà l’appellativo, universalmente riconosciuto, di Neil“Forever“Young.