La vulgata sui My Morning Jacket normalmente parla di una band perfetta giusto il tempo di una manciata di dischi, tramontata proprio all’indomani di quello Z che ne aumentò la visibilità e contemporaneamente, grazie soprattutto al lavoro del produttore John Leckie, declinò la loro proposta in una modalità maggiormente fruibile. Da lì in avanti i lavori in studio del gruppo di Louisville non sarebbero stati più altrettanto brillanti, si sarebbero mossi in mille direzioni diverse e avrebbero per la maggior parte concluso poco.
Non ne sono molto convinto. Sarà che, tanto per cambiare, li ho scoperti tardi, ma ho sempre trovato il periodo post Z particolarmente affascinante, soprattutto un disco come Circuital, certamente prolisso, certamente disomogeneo, ma contenente a mio parer alcune delle più belle composizioni del loro repertorio.
Che poi io con loro ho un enorme rimpianto: nel 2006 li vidi quattro volte dal vivo a distanza di pochi giorni, perché aprivano il tour europeo dei Pearl Jam e mi feci tutte le date italiane, che furono cinque. A Verona piovve a dirotto per cui stetti al riparo e mi persi l’opening act ma in tutte le altre occasioni sono stato presente (a Torino salì pure Eddie Vedder per l’ultimo brano, una cover di “A Quick One, While He’s Away” degli Who) e mi sono annoiato a morte. Avete capito bene. Sono stato tra i pochi fortunati che hanno visto i My Morning Jacket suonare in Italia (dubito che siano mai passati in seguito) e per tutto il tempo non vedevo l’ora che arrivassero gli headliner. Traete voi le dovute conclusioni.
Dopo The Waterfall Jim James e compagni se ne sono stati in silenzio per un po’ e a parte sporadiche esibizioni live, sempre rigorosamente in territorio americano, non ne abbiamo avuto notizia. La scorsa estate, in piena pandemia, è uscito The Waterfall II che era però soprattutto una raccolta di outtakes dal precedente disco. Gradevole ma niente per cui strapparsi i capelli e soprattutto nessuna prova che fossero ancora vivi e vegeti.
Il ritorno con un album senza titolo, che porta semplicemente il loro nome in copertina (metaforicamente, perché poi in realtà sulla cover non c’è neanche quello) non può che essere visto come una esplicita dichiarazione d’intenti, la voglia di ripartire dalle origini, dopo sei anni di pausa, e di provare a vedere se si è ancora in grado di fare musica.
In una recente intervista ad Esquire, Jim James ha raccontato tutte le sue difficoltà durante il lockdown, con i concerti azzerati e l’impossibilità di poter attuare una programmazione a lungo termine, ma anche (e questa è una mezza novità, nella narrazione polarizzata di oggi) del forte disagio che sta provando adesso che ha ricominciato ad andare in tour, con la costante paura che tutto questo possa finire da un momento all’altro per una nuova recrudescenza del virus, o che sia costretto ad uno stop forzato perché qualcuno della sua crew è risultato positivo. Le assicurazioni non coprono, ha spiegato, perché per loro sarebbe un rischio troppo grande, e così se si vuole tornare dal vivo si è costretti a giocare d’azzardo e a sperare che vada tutto bene.
Sarà per questo che le canzoni di questo disco sono così distese e pacificate? Non so nulla dei tempi di composizione ma è abbastanza significativo che, in un momento storico in cui percepiamo con chiarezza di essere ancora appesi a un filo, la band del Kentucky se ne esca con un disco solare e magnificamente aperto, come se davvero ci fosse da celebrare una ripartenza.
Abbandonate le sperimentazioni e gli eclettismi del recente passato, i Morning Jacket tornano a quello che sanno fare meglio, interpretando alla loro maniera il Classic Rock e contaminandolo con discrete dosi di Alternative, il tutto con una scrittura di altissimo livello, che ci fa ricordare come mai sono da sempre così amati sia dagli estimatori più integerrimi del Roots sia da coloro che prediligono ascolti più variegati.
Bastano una manciata di brani, tra cui il singolo “Regularly Scheduled Programming” a farci capire che sono tornati alla grande e che pochi come loro sanno coniugare un songwriting sopraffino ad una cura maniacale degli arrangiamenti, il tutto servito con una pulizia del suono decisamente invidiabile.
Musicalmente sembrano riprendere da dove avevano lasciato con Z, con l’impronta generale che sta a metà tra quel disco e i precedenti At Dawn e It Still Moves, che contenevano potenziali hit ma anche numerosi episodi più ricercati.
Se a tratti recuperano un’immediatezza e uno spirito caciarone che non ricordavamo più potessero avere (in effetti “Love Love Love” è quasi ruffiana nelle sue atmosfere Flower Power e lo stesso si può dire di altri episodi catchy come “Lucky to be Alive” e “Complex”), in queste undici canzoni ci sono anche ballate superbe, dilatate nella forma ed essenziali nella struttura melodica, che vivono soprattutto dell’intenso dialogo tra la chitarra di Carl Broemel e le tastiere di Bo Koster: “In Color”, “The Devil’s in the Details” e la conclusiva “I Never Could Get Enough” non sono solo le migliori composizioni di Jim James da parecchio tempo a questa parte ma mostrano la straordinaria abilità a plasmare una materia sonora semplice e per certi anche abusata, per trasformarla in qualcosa di meraviglioso e irripetibile.
Probabilmente i capolavori del passato sono lontani ma tutto si può dire tranne che si tratti di un disco realizzato in automatico, da parte di una band che vive di ricordi. A meno di miracoli, dalle nostre parti non li vedremo. Chi ha soldi da spendere se li guardi su nugs.net, per tutti gli altri questi sessanta minuti di musica costituiscono davvero un regalo inaspettato.