La Rappresentante di Lista è arrivata all’Ariston con tre album alle spalle ed un elevato capitale di consenso, maturato soprattutto con “Go Go Diva”, che nel biennio 2018-19 l’ha anche rivelata come act infallibile nell’imbastire un live show con tutti i crismi.
Lontano dall’It Pop più trito e commestibile, la presenza nel roster di Woodworm a certificare già di per sé l’appartenenza ad una ipotetica “vecchia scuola”, allo stesso tempo in possesso dei requisiti giusti per fare il grande salto senza snaturarsi, il duo siciliano approda al quarto disco sull’onda della partecipazione sanremese e dimostra tutto sommato di essere riuscito ad evolversi senza per questo dover addomesticare alcunché.
In un’edizione del Festival contraddistinta dalla presenza di una nutrita rappresentanza di artisti “indipendenti” e, allo stesso tempo, da una larga serie di concessioni ai canoni di scrittura sanremesi (diciamoci la verità: belle o meno le canzoni, quasi nessuno tra questi artisti è riuscito ad offrire alla gara una proposta che non fosse in qualche modo diluita e annacquata per venire incontro ai gusti più superficiali dello spettatore medio), Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina sono stati in assoluto tra i migliori: da una parte hanno pagato pegno a Dardust, indiscusso protagonista tra gli autori di questa edizione, pur non avendone necessariamente bisogno; dall’altra hanno presentato un brano tutto sommato in linea con la loro personalità, scritto benissimo, ottimamente arrangiato, riuscendo anche a far vedere che cosa sono in grado di combinare sul palco (aggiungiamo che la loro rilettura di “Splendido splendente” in compagnia di Donatella Rettore è stato, almeno per chi scrive, il momento di gran lunga più alto nella serata dei duetti).
Il disco, bene o male, si muove su questa falsariga: un maggiore appeal radiofonico, soprattutto nei ritornelli, ma per il resto è la solita band in palla, capace di scrivere grandi canzoni ed in possesso di quella particolare aura carismatica che è propria di chi è destinato a diventare grande.
“My Mamma”, che esce sempre per Woodworm ma che inaugura la collaborazione con Numero Uno/Sony Music, segnando così l’approdo del gruppo nell’universo mainstream, parte da una copertina che cita espressamente “L’origine del mondo” di Gustave Courbet (l’ha realizzata la loro concittadina Manuela Di Pisa) per toccare uno spettro di tematiche che va dalla nascita all’appartenenza, fino all’eredità che ciascun individuo lascia nel mondo; c’è anche la necessità di prendere posizione, il rapporto tra la propria identità individuale e la dimensione comunitaria, che la pandemia è andata a scardinare in pieno, costringendoci un po’ tutti ad affrontare interrogativi scomodi.
Se partiamo da qui, allora il centro di tutto è “Resistere”, dove Veronica Lucchesi mette a frutto le sue esperienze da attrice per un brano che sta a metà tra il monologo e la canzone d’autore e che sembra indirettamente porre sul tavolo questioni importanti: che cosa ci stiamo perdendo? A che cosa stiamo davvero rinunciando, tappandoci in casa? Cosa vuol dire veramente resistere? E soprattutto: basterà davvero affermare di essere vivi, per riuscire a portarsi a casa qualcosa?
All’altro polo c’è il brano di Sanremo, che non snatura la loro attuale dimensione e che offre un assaggio del lato più magniloquente della loro proposta. Un altro gran pezzo, non il migliore dell’album ma sicuramente in linea con il loro livello medio.
In generale, le principali differenze tra questo e i dischi precedenti stanno in un maggiore utilizzo della componente elettronica, a discapito del lato più art rock e settantiano che ammantava soprattutto “Go Go Diva”.
Episodi come “Religiosamente” o “Alieno” (quest’ultima una delle migliori in assoluto) ne sono la dimostrazione ma anche “Fragile”, l’unica ad essere cantata da Mangiaracina, è giocata su un piacevole ritmo Synth Pop.
I fan della prima ora forse potranno storcere il naso per una presenza cospicua di ballate o simili, ma se è vero che in “Oh ma oh pa” (con accompagnamento pianistico e orchestrata in maniera leggera), in “Sarà” e “Paesaggi stranieri” (entrambe con la tipica impostazione cantautorale) si rallenta molto, è altrettanto innegabile che la qualità non scende mai.
Certo è che, almeno il sottoscritto, si trova più in linea con “VGGG (Very Good Glen Gould)”, dal ritmo irresistibile e dalle reminiscenze Beat, oppure con la conclusiva “Mai mamma”, che si muove tra Urban, Afrobeat e ballata popolare, un altro grande pezzo ed ennesima occasione dove si osserva il lavoro notevole che è stato fatto a livello percussivo (giusto menzionare Erika Lucchesi e Roberto Calabrese, che pur non facendo parte a tutti gli effetti del gruppo, hanno sempre suonato sui dischi e nei concerti, con la prima che ha partecipato anche alla scrittura e all’arrangiamento dei brani).
Probabilmente vi sarà chi storcerà il naso, sostenendo che una band come La rappresentante di lista suoni apparentemente alternativa ma sia solo la brutta copia di un progetto mainstream. La verità è un filino più complessa: in un’epoca in cui ogni distinzione sembra naturalmente destinata a cadere e in cui permane un disperato bisogno di autenticità, l’act palermitano potrebbe invece rappresentare una valida alternativa ai trend imperanti e la prova vivente che si può ancora costruire un percorso per quanto possibile personale e originale.