Un bel referendum per abrogare la legge sul divorzio nella musica vedrebbe il mio sì convinto. Non avrei dubbi: che bisogno c’è di cercare nuovi stimoli altrove quando basterebbe impegnarsi un po’ di più con le persone con cui ti sei promesso melodie eterne? E poi, ai fan, non ci pensa nessuno?
Noi democristiani del rock siamo sempre lì a drammatizzare e, appena uno come Paul Banks decide di prendersi una boccata d’aria, addirittura con un ex compagno delle superiori, diamo a musicisti del calibro di Josh Kaufman degli sfasciafamiglie. Completa il threesome alla batteria Matt Barrick, un altro con un rapporto in stand-by alle spalle, quello con i The Walkmen. Il tutto a poco più di 24 mesi dai primi vent’anni di connubio, l’esordio sulla lunga durata dell’ex quartetto newyorkese, l’intramontabile “Turn On The Bright Lights”, l’archetipo della new new-wave.
Ma non c’è cattivo gusto nei Muzz, semmai un nome un po’ così, che a noi non anglofoni sembra molto meno altisonante di Interpol. Lasciamo allora che questa pausa dalle cose importanti abbia la risonanza che merita. D’altronde succede a tutti i cantanti, quando invecchiano, di sentirsi in dovere di tirare il freno a mano e dimostrare al mondo che sono in grado di essere delle persone affidabili e rassicuranti. Le regole sono sempre le stesse: staccare il distorsore, mettersi comodi, imbracciare strumenti acustici. Ed è quello che succede anche nei dodici brani che compongono questo primo album dei Muzz, una dozzina di ballad che ti immagineresti a suonare e cantare per far addormentare un neonato alla sera, dopo una giornata di lavoro, ma che ti fanno crollare prima di lui.
Scherzo, eh. Il disco è un bel disco, ed è una convinzione che matura brano dopo brano. Malgrado il titolo, “Bad Feeling” è la prima traccia e ti fa sentire bene. Con “Red Western Sky” il campo si apre su un panorama visto dal finestrino in un viaggio coast to coast, complici gli arrangiamenti di tromba e trombone che si distendono come nei brani dei The National in cui, dal vivo, sostituiscono gli archi - difficili da gestire sul palco - con i più maneggevoli e trasportabili ottoni.
La stessa sensazione si ha con “Patchouli” ma a fari spenti, davanti a un fuoco, con intorno la prateria, prima di infilarsi nel sacco a pelo. “Everything Like It Use To Be” e “Broken Tambourine” danno la conferma che il baricentro dell’ispirazione sia ben distante da ciò a cui siamo abituati ad associare la voce di Banks che, nel suo passato solista, non aveva mai così spudoratamente abbandonato la causa per darsi all’americana.
“Knuckleduster” mantiene la matrice acustica del disco ma aggiunge una tacca di cattiveria al mood. Un brano in cui si coglie qualche reminiscenza di quando i The Walkmen facevano da colonna sonora a The O.C. E su “Chubby Checker”, forse il pezzo più bello dell’album, si potrebbe persino ballare un po’. Bello il tappeto d’organo sotto, vero? C’è persino spazio per un po’ di bossa con “How Many Days” ma poi, intravista la destinazione finale, il disco rallenta bruscamente nelle ultime tre tracce, per fermarsi definitivamente al capolinea con l’ultima, “Trinidad”.
“Muzz” è un album nell’insieme molto interessante, una meritata scappatella compositiva per un artista che dimostra di avere ancora tante cose da dire e da suonare. Il problema è insito nella maledizione/benedizione dell’avere un timbro unico e riconoscibile come il suo. Il rischio è che un supergruppo come i “Muzz”, ascoltati a occhi chiusi e senza sapere niente, sia scambiato per gli Interpol che fanno alt-country, e allora vale tutto. Ci sarà prima o poi una versione reggae degli Interpol, o una versione Gipsy Kings, perché no. Dipende tutto da quello che vorrà fare Paul Banks in futuro.