In un interessante articolo del Washington Post apparso online e datato 9 marzo, il critico Chris Richards esamina con acume l'impatto psicologico e addirittura sociale che Spotify sta avendo sulla comunità degli ascoltatori. E già qui il primo distinguo. Ascoltatori o consumatori? Perché se solo 10 anni fa la musica era principalmente oggetto di possesso, oggi è ormai soggetto di fruizione. Secondo Richards “l’atto dello streaming trasforma la musica da sostantivo a verbo, da oggetto ad attività.”
Da qui il punto centrale, condivisibile ed anzi stringente: l'ansia e la frenesia connesse all’attività di cui sopra ed alla piattaforma di streaming leader del mercato, un portale che concede – apparentemente - massima libertà di fruizione su un catalogo di 30 milioni di brani eppure si rivela, secondo l’autore, un’esperienza di ascolto frustrata da ondate di "ansia collettiva". Ora per i dubbi sul reale tornaconto degli artisti (questione sempre dibattuta), ora per la passività dell'atto stesso dell'ascolto (problema assai meno discusso). Ora, soprattutto, proprio per l'enormità di quel catalogo, talmente vasto per cui non basterà certo una vita ad ascoltarlo tutto. Eccoci di fronte all'inconciliabilità di un elenco tanto sterminato con il tempo d'ascolto di ognuno di noi, limitato e frammentario. Inevitabile dunque "l'ansia da ascolto", la frenesia di avere subito ciò che cerchiamo e ciò che più è propagandato.
Dalle nostre misere parti poi forse qualcuno si ricorda le recenti polemiche spicciole e livorose degli utenti che si sono visti bloccare le proprie versioni craccate ed illegali della app: “Ah quindi voi mi bloccate Spotify craccato? E io torno a scaricare la musica da Youtube e a mettermela sul telefono”. La notizia ha rimbalzato per qualche giorni sui principali quotidiani italiani.
Riguardo alle prime due “onde d’ansia”, royalities per gli artisti ed effettiva libertà d’ascolto, Richards cita un altro interessante articolo a firma Liz Pelly, pubblicato di recente sull’edizione web del magazine The Baffler. Secondo Pelly, il valore aggiunto di Spotify rispetto servizi analoghi come Apple o Amazon Music sta nel suo algoritmo di ricerca e scoperta di nuovi “prodotti musicali” e nella sua capacità di adeguare l'intera proposta a nuovi standard prestabiliti. Un meccanismo che ha nelle playlist la carta vincente ed il suo vero volano.
Dunque, che logica sfrutta la piattaforma per creare le sue compilation? E per restituirci i risultati di una ricerca? Secondo Pelly esistono canali privilegiati per alcuni artisti, liaison commerciali con brand investitori. Insomma nulla di nuovo quando il mondo del “broadcasting” interseca quello dell’ “advertising”. Dietro l'illusione di facciata della "libera scelta" si celerebbe il più rigido e preordinato controllo dei curatori di Spotify, diretto dagli interessi delle più importanti etichette discografiche, dei marchi e di chiunque possa smuovere business.
È quello che l’autrice chiama efficacemente "l'automazione della vendita". Non paghiamo, siamo convinti di fare un affare e, quel che è peggio, di condurre noi il gioco. Invece stiamo acquistando qualcosa che probabilmente nemmeno ci serve da qualcuno che nemmeno ci ha chiesto il permesso. Un po' estremo ma rende l’idea, no?
Eh già. Accessi illimitati, musica illimitata. È l'equivalente di viaggi aerei a 15 euro, pacchi ricevuti 2 ore dopo l'ordine, voti online per eleggere i propri rappresentanti. Bolle socialmente (ed economicamente) non sostenibili che, prima o dopo, scoppiano o almeno si ridimensionano. E da qui l’altra ansia: come si reggerà Spotify, o meglio come reggeranno gli artisti con le royalties da fame che pare la piattaforma passi loro? Gli artisti non si preoccupino dei soldi, pensino a scrivere buone canzoni. Questo è almeno il refrain che ogni manager, più o meno a bassa voce, ripete da Tin Pan Alley in giù. La vera domanda dovrebbe però riguardare la salute dello streaming stesso: tanto per ricordarcelo, lo scorso anno Spotify ha chiuso con un rosso di 324 milioni di euro. Da cui la decisione di quotarsi in borsa.
La conclusione, positivista almeno nella forma, tracciata da Chris Richards, è che nell'ascolto di questo cloud “non mappabile”, la musica in stream, pur nel suo torbido contorno, ritorna almeno allo stadio originale di intangibile vibrazione aeriforme che sparisce veloce come era apparsa. Suggestivo, non privo di verità.
Ma non è forse possibile un passo ulteriore?
Uscire dal cloud.
Non provare nemmeno a mappare la nuvola e ritornare, anche solo occasionalmente, coi piedi per terra e frugare laddove Spotify ancora non è arrivato.
Sacche di resistenza allo stream. Ovvero, nicchie talmente remote da non interessargli.
Per non predicare bene e razzolare male, qualche nome, dei tantissimi che potrebbero stare sul vostro piatto. Fushitsusha: Live I. Bohren & der Club of Gore: Sunset Mission o Black Earth. Far East Family Band: Parallel World, un album di cui Julian Cope scrive “alla fine del viaggio, la cosidetta realtà, osservata da un bozzolo imbottito di cuscini, ha davvero un che di rozzo.”
Emozionati?
Fermi però. So benissimo che state già navigando su Youtube (che è pure peggio di Spotify...) per sentire subito con le vostre orecchie.
Non fatelo.
Tenete a bada la vostra urgenza di ascoltare; tenete a bada quella perenne ed ossessiva impressione di dovervi mettere in pari, di dovere recuperare terreno, di stare perdendovi il disco dell’anno. Non siamo in gara.
Rilassatevi, recuperate il tempo, rallentate. Verrà il momento, perché no, di mettere quel “disco dell’anno” sul lettore cd.
Non prendetelo solo come un banale elogio alla lentezza; piuttosto come una forma di rispetto per la musica che amate. Rispetto quindi per voi stessi. Atto eroico di antimodernismo, che potete attualizzare benissimo acquistando l’album d’esordio degli Ex Eye (giugno 2017) o quello degli Starcrawler (gennaio 2018).
Fatto?
Bene, prendete un bel respiro e ributtatevi online. Ci sono ancora quei 30 milioni di brani che vi aspettano.