Pur avendo acquisito nel tempo una certa notorietà internazionale, Susanne Sundfør resta comunque un’artista che vive ai margini del clamore mediatico. La trentenne songwriter norvegese, infatti, se è vero che in patria è considerata una sorta d’istituzione, resta comunque sconosciuta ai più, la classica musicista di nicchia per pochi appassionati dal palato fine.
Nipote di Kjell Aartun, teologo e linguista di fama mondiale, laureata, atea, politicamente militante a sinistra, Susanne ha iniziato da bambina a studiare pianoforte e canto, concludendo il suo iter formativo e di studi nel 2007, anno in cui ha visto la luce il suo primo e omonimo album. Oggi, nel pieno della maturità artistica, vanta collaborazioni importanti (Royskopp, M83, Madrugada, Mercury Rev, etc) e una discografia composta già da otto album (tre dal vivo), compreso quello che stiamo per raccontare.
Difficile dare una connotazione di genere alla musica creata dalla songwriter norvegese: i suoi dischi sono concettualmente colti, a tratti sperimentali, sempre comunque figli di un eclettismo che rende Susanne una delle artiste più interessanti in circolazione. In definitiva, si può dire che questa musica sia un continuo rimescolare le carte: synth pop, dream pop, electropop, jazz, art pop, drone music, ambient, soul e country folk sono solo alcuni dei generi che potreste individuare ascoltando uno dei suoi album. Se i primi due dischi avevano connotazioni maggiormente cantautorali, il terzo, The Brothel, ha segnato un deciso scarto verso l’elettronica, confermato poi dal successivo, bellissimo, Ten Love Songs, un’opera segnata da sonorità clamorosamente synth pop.
Con Music For People In Trouble (2017), Susanne è tornata a una concezione canzone più scarna ed essenziale, asciugando gli arrangiamenti dei brani, utilizzando talvolta un solo strumento e mettendo in luce soprattutto la sua bellissima voce, capace con eclettismo di spaziare fra diversi registri.
Music For People In Trouble: Live From The Barbican, come si evince dal titolo, è la trasposizione live dell’intera scaletta del precedente disco in studio. Nessuna novità sconvolgente, dunque, e nessuna canzone, nuova o vecchia, che scompagini un filotto di canzoni riproposte, peraltro, nello stesso ordine in cui comparivano nel disco di appartenenza. C’è però la possibilità di ascoltare Susanne dal vivo, dimensione nella quale la ragazza norvegese si sente molto a suo agio (come dicevamo sono tre i dischi live nella sua discografia), e di godere della splendida atmosfera sospesa di un live act che fotografa al meglio un’artista talentuosa, appassionata ed eclettica.
Insomma, bello era Music For People In Trouble e bella è questa riproposizione che alterna la povertà francescana e la purezza intimista dell’iniziale Mantra, il country folk accarezzato dalla pedal steel di Reincarnation, i languori pianistici di Good Luck, Bad Luck, il clarinetto e il violoncello che avvolgono nell’ombra la melodia drammatica di Bedtime Story e il crescendo appassionato di Undercover (con quel finale che richiama alla memoria Kate Bush).
Dieci canzoni decisamente emozionanti, legate dal fil rouge della voce espressiva, avvolgente e versatile della Sundfør, una capace di centrare il bersaglio grosso del cuore dopo solo due strofe.
Un disco forse inutile per chi già conosce la songwriter norvegese, ma che per tutti gli altri può rappresentare l’abbrivio per fare la conoscenza di una delle artiste più genuinamente talentuose e originali oggi in circolazione.