Lo scrivo perché la premiata coppia romana arrivò come un fulmine a ciel sereno, dopo una lunga ed impegnativa gavetta in ambito Hip Pop, con una manciata di canzoni folgoranti, che trovavano una sintesi inedita tra Rap e It Pop, unitamente ad un modo leggero ma ferocemente autentico di raccontare il vissuto quotidiano. Furono in qualche modo la prosecuzione di quel che stava accadendo con Calcutta e aiutarono a definire, per certi versi completandola, quella evoluzione del “nuovo Indie italiano” che mentre scriviamo costituisce ancora il nostro presente, nonostante si intravedano segnali di mutamento.
Ecco, la cosa pazzesca è che tutto questo sia durato lo spazio di un disco e del relativo tour. Che da una parte è una cosa normale, se ci si riflette bene, dall’altra invece apre squarci preoccupanti sulla possibilità reale che una carriera abbia ancora lo spazio di durare e di svilupparsi sul lungo periodo come è sempre stato.
La ragione di questa volatilità, forse l’ha individuata lo stesso Franco126, quando recentemente intervistato da Noisey, sosteneva che i prodotti troppo “contemporanei” hanno la tendenza ad invecchiare presto e che questa era la ragione, in sostanza, per cui non c’era stato un seguito di “Polaroid”. C’è del vero, in effetti. Se pensiamo a “Il sorprendente album d’esordio de I Cani” è più o meno la stessa cosa: disco fondamentale ma loro sono durati poco (soprattutto già al lavoro successivo avevano modificato le coordinate) e probabilmente nessuno o quasi degli adolescenti o dei giovani di oggi se lo è andato davvero a recuperare. E credo che in questo caso abbia molto più senso il fatto che tanti dei riferimenti di quelle canzoni siano ormai scaduti (Flickr è preistoria, i pariolini, lo dice Franco stesso, si sono depoliticizzati e persino gli Hipster sembrano passati di moda) piuttosto che il solito trito discorso sull’appiattimento della prospettiva storica.
Ma poi conta anche il fatto che una formula come quella di “Polaroid” avrebbe rischiato terribilmente di ripetersi. Mi era balenato come retropensiero, mentre assistevo all’ultimo live al Carroponte di Milano, in una calda sera di fine estate, credo fosse tre anni fa: “Che figata quando uscirà il prossimo disco – mi dicevo – Ma ci sarà davvero un prossimo disco? – chiedevo poi dubbioso a me stesso – e se ci sarà un prossimo disco, parleranno ancora delle loro serate romane tra birre e sampietrini?”.
Il dilemma era tutto qui. Se, gira e rigira, parli sempre del tuo vissuto e non riesci neppure ad essere troppo vario nelle soluzioni stilistiche, rischi seriamente di risultare già vecchio al secondo disco. Che al giorno d’oggi equivale a gettarsi a forza nel dimenticatoio e buttare via la chiave.
Che ci siano stati anche screzi personali in questa separazione o solo mere considerazioni artistiche, è un dato di fatto che da due anni i due abbiano separato le strade. Carl Brave è quello che ha proseguito di più sulla linea della continuità, fedele alla componente Urban già con “Notti brave”, zeppo di feat e uscito quando il tour di “Polaroid” iniziava la sua ultima leg estiva.
Franco, dal canto suo, ha intrapreso il percorso più interessante, svoltando su un cantautorato in bilico tra ironia e disincanto, con un potenziale melodico moltiplicato e il nume tutelare di Franco Califano neanche troppo nascosto.
“Multisala” arriva due anni dopo “Stanza singola” ed è sinceramente difficile dichiarare se sia superiore o inferiore a quel lavoro. Di sicuro ci sono delle differenze, più o meno marcate a seconda della prospettiva da cui le si guarda: la prima è senza dubbio l’attenuazione del tono scanzonato che lo ha sempre contraddistinto, in favore di un maggior spazio concesso alla componente agrodolce e meditativa. Vero che qua e là riaffiorano suggestioni degli esordi (soprattutto nel ritmo saltellante di “Accidenti a te”) ma il mood generale si è incupito, non sarebbe fuori luogo definirlo un disco triste.
L’altro grande cambiamento è che sono spariti dai testi i riferimenti specifici. C’è ancora la quotidianità ma è una quotidianità metaforica, universale, priva di connotazioni precise che possano ricondurre queste storie ad una determinata epoca. È stata una scelta voluta, lo ha dichiarato in diverse interviste, quella di staccarsi dal modello di “Polaroid” e rendere le nuove canzoni senza tempo, in grado di sopravvivere alla dittatura della contemporaneità. Lo diranno i posteri se l’esperimento avrà funzionato; io personalmente posso dire che, pur scettico sulla possibilità di ripetere all’infinito gli stessi topoi senza far loro perdere efficacia, questi testi mi appaiono nel complesso un po’ più deboli del solito. Se l’intento era raccontare storie (come lo stesso titolo “Multisala”, i riferimenti al cinema sparsi qua e là e la divertente ospitata da Gigi Marzullo hanno fatto capire bene) allora di queste storie si capisce poco, salvo una generale focalizzazione sul rimpianto, il senso di perdita, le riflessioni su storie d’amore finite e un divertente ritratto di un amico immaginario.
Musicalmente funziona tutto come al solito, con il riconfermato Ceri ad occuparsi della produzione che fa il solito ottimo lavoro, mischiando l’elettronica (mai troppo invadente) agli strumenti analogici (fondamentale l’apporto di Pietro Di Dionisio) per un feeling generale piuttosto Retro, che guarda al già citato Califano, a Baglioni, Venditti e in generale al cantautorato più intriso di Pop a cavallo tra i ’70 e gli ’80.
Franco è bravo, i suoi collaboratori anche e la scrittura, pur con pochi sussulti, riesce sempre a cogliere nel segno. Tra gli highlight c’è senza dubbio “Blue Jeans”, che ha una costruzione melodica solidissima e si avvale di un featuring di Calcutta che non solo completa il brano alla perfezione ma che è anche tra le cose più belle mai fatte dall’artista di Latina. Nel momento in cui dovessimo contenere tutto l’It Pop degno di essere trasmesso alle generazioni future all’interno di una playlist da un’ora scarsa, questa ci finirebbe senza dubbio dentro.
Ci sono cose che si avvicinano a quel livello di intensità, per esempio l’iniziale “Che senso ha”, con un bellissimo ritornello, trascinante e malinconico al tempo stesso, oppure la storia d’amore non concretizzata di “Miopia”, o ancora “Ladri di sogni”, sorta di scorribanda ipnotica in una Roma notturna, una produzione più elettronica ed un’atmosfera cupa che la rende difficilmente assimilabile al resto della scaletta.
Il resto è molto buono, come già detto, senza entusiasmi ma fa il suo con disinvoltura e si lascia ascoltare con grande piacere, dalla serenata romantica di “Vestito a fiori” alla strappalacrime “Maledetto tempo”, che avrebbe dovuto finire nei titoli di coda di “Mi chiamo Francesco Totti” di Alex Infascelli; la cosa poi non si è fatta ma il testo è rimasto lì, ispirato al discorso d’addio del capitano della Roma, depurato dai riferimenti più specifici (dopotutto Franco ha sempre detto di non essere un tifoso) ma sempre un gran bel pezzo sull’inesorabilità del tempo che passa e sulla necessità che abbiamo, come esseri umani, di venirne a patti.
In perfetto stile cinematografico, l’ultimo brano non poteva che chiamarsi “Lieto fine” e se anche non ha la forza di “Ieri l’altro”, che chiudeva “Stanza singola” assestando un bel pugno nello stomaco all’ascoltatore, si mostra comunque in grado di riassumere il senso di un disco che, lo diremo tra qualche anno se ci sia riuscito o meno, ha cercato di collocare la proposta di Franco126 nella continuità della tradizione popolare italiana.
Quello che si può affermare con certezza è che a quattro anni di distanza, “Polaroid” rimane un disco importante ma non ci manca più come prima, il seguito della storia è altrettanto buono.