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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
01/12/2017
I Genesis di Phil Collins
"Much Ado About Nothing"
Gli oltranzisti del progressive hanno spesso la tendenza a dimenticare (o a non voler ricordare) che fin dall’acerbissimo esordio From Genesis To Revelation del 1969, i Genesis sono sempre stati soprattutto dei grandissimi autori di grandissime canzoni

Sorprende notare come alcuni aspetti della popular music si siano trasformati in banali luoghi comuni che ancora accompagnano gran parte dell’immaginario dell’ascoltatore. Uno dei più gettonati ed esemplificativi rimane a tutt’oggi la diaspora creatasi in territorio Genesis dopo la dipartita di Peter Gabriel nel 1975. Si parla, cioè, di più di quattro decadi fa. Eppure, su blog, riviste specializzate, webzine e volumi dedicati alla Band (innumerevoli, soprattutto in Italia, che da sempre intrattiene un rapporto privilegiato con gli ex-membri grazie all’incredibile passione e competenza di Armando Gallo prima e Mario Giammetti poi) si continua a disquisire sul “prima” e sul “dopo”: da Los Angeles a New York, da Londra a Dublino, da Aosta a Catania, Phil Collins è – per il “vero intenditore” – colui che ha svenduto la somma arte dei Genesis a Mammona.

Tuttavia, checché ne dicano i puristi, pochi gruppi sono stati capaci di uscire dalle pastoie prog – perché se si vuole essere intellettualmente onesti bisogna dirlo: da quelle pastoie prima o poi si doveva uscire – con l’eleganza e l’adorabile insolenza dei Genesis post-Gabriel (e post-Hackett, a voler essere puntigliosi). Non gli Yes, che, dopo gli indecorosi onanismi di Tales From Topographic Oceans (1973), persero quasi del tutto idee e ispirazione per ritrovarsi poi improvvisamente tra le mani una hit clamorosa nel 1983 con “Owner Of A Lonely Heart”; non gli Emerson Lake & Palmer, spiaggiatisi goffamente (e ivi rimasti) nel 1978 su quella Love Beach che li ritraeva – parole dello stesso Keith Emerson – come “novelli Bee Gees”; non i Camel, non i Gentle Giant – giusto per scegliere solo alcuni dei nomi più altisonanti (più complesso, invece, il discorso relativo ai Van Der Graaf Generator, che non è possibile affrontare qui per ovvie ragioni di spazio).

Eccezion fatta per King Crimson (ma oggi possiamo affermare con certezza che Robert Fripp proviene da un altro pianeta) e Pink Floyd (che quanto a paraculismo non sono secondi a nessuno), tutta la pletora di gruppi dediti al rock progressivo spirò – più che per l’avvento del punk – per manifesta autoindulgenza e incapacità di rinnovarsi all’interno delle coordinate di un genere che aveva già dato il meglio di sé agli albori. Nell’ultima prova dei Genesis gabrielliani – quel The Lamb Lies Down On Broadway (1974) che, non nel pentagramma ma senza dubbio nella figura del protagonista Rael, possiede già qualche afrore punk – si avverte il desiderio di svincolarsi da clichés e modelli che ne avevano fino a quel momento decretato la fortuna epperò stavano trasformandosi in vicolo cieco.

Certe asprezze di suono inaudite (“Back In N.Y.C” e la stessa title-track), certi coraggiosi sperimentalismi (“The Waiting Room”, “Riding The Scree”) la drastica riduzione del minutaggio delle canzoni, il sapore indiscutibilmente pop di certi motivi (“The Carpet Crawlers”, “Counting Out Time”, “It”), le avanguardistiche – per l’epoca, si intende – sfumature ambient (“Silent Sorrow In Empty Boats”) - tutto ciò lasciava presagire un mutamento di direzione imminente, sebbene ancora non chiaramente definito. È per questa ragione che il successivo A Trick Of The Tail (primo LP con Collins alla voce pubblicato nel febbraio del 1976) è da considerarsi – pur nella sua indubbia, “classica” bellezza – un piccolo passo indietro, quasi che i Genesis, forse spaesati senza un elemento considerato allora insostituibile come Gabriel e per rendere meno traumatico un avvicendamento che si pensava improponibile, avessero avuto timore di osare ulteriormente e si fossero rivolti a un passato prossimo in cerca di certezze e approvazione. Immediatamente trovarono – non era affatto scontato – sia da parte dei fan che della critica un certo consenso, e a giusta ragione, vien da dire: ammodernati scaltramente certi barocchismi a cui sarebbe stato poco avveduto rinunciare d’emblée, quello che mi piace definire “disco della convalescenza” (nessuna separazione è indolore, figurarsi la separazione da uno come Gabriel) rientra a pieno titolo tra le cose migliori del catalogo, con almeno due tracce (“Mad Man Moon” e “Ripples”)  che se non sono le cose migliori prodotte dai Genesis, siamo lì, e anche l’inedito piglio rockettaro di “Squonk” non è da meno. I Genesis intascano un successo clamoroso e – batti il ferro finché è caldo – appena dieci mesi dopo eccoli a capitalizzare l’insperata e perlomeno ai tempi impensabile popolarità con l’autunnale Wind & Wuthering, di pari qualità (per certuni anche maggiore) e addirittura per certi versi (la mini-suite “One For The Vine”, che non avrebbe sfigurato su Selling England By The Pound, così come “Blood On The Rooftops”, per la quale Steve Hackett pennella una intro da sollucchero) ancor più sfacciatamente indulgente verso il passato. Wind & Wuthering è il disco preferito di Hackett e non a caso: il suo apporto compositivo è il più esteso dacché il chitarrista (che nel 1970 prese lo scomodissimo posto di quel musicista fenomenale che risponde al nome di Anthony Phillips) milita nei Genesis.

Nell’imponente tournée che segue, i non facili rapporti fra Hackett e il resto del gruppo si fanno insostenibili e quando viene rilasciato il doppio live Seconds Out (che di quel tour è fin troppo perfetta cartolina), il chitarrista ha già rassegnato le dimissioni.

…And Then There Were Three (1978), per l’appunto, ultimo album dei Settanta, segna il definitivo abbandono dell’estetica prog e apre risolutamente al pop-rock del decennio a venire, gettando i semi di un’ascesa allo stardom internazionale che avrà la sua epitome nel 1986 con il vituperato Invisible Touch e la sua replica cinque anni dopo con We Can’t Dance, corredati da relativa epica tournée in stadi e arene, pietre di uno scandalo che forse, col senno del poi, non ha mai avuto ragione di esistere. In mezzo, tre album in studio che non vanno al di là del dignitoso – Duke (1980), il migliore,  Abacab (1981) e Genesis (1983) – più il non brillantissimo documento del tour del 1981 Three Sides Live, raccontano di un trio sempre più combaciante con (e indistinguibile da) un Collins solista (strepitoso il suo successo, fin dal 45 giri d’esordio “In The Air Tonight” nel 1981) lanciato nell’Olimpo del pop accanto a nomi come Michael Jackson, Prince, Madonna e Bruce Springsteen.

Gli oltranzisti del progressive hanno spesso la tendenza a dimenticare (o a non voler ricordare) che fin  dall’acerbissimo esordio From Genesis To Revelation del 1969, i Genesis sono sempre stati soprattutto dei grandissimi autori di grandissime canzoni, e che sia i complessi arrangiamenti del periodo ’70-’77 sia quelli assai più semplici e immediati dell’era Collins (sorvoliamo, per umana pietà, sull’infausto Calling All Stations del 1997 con alla voce il pur bravo Ray Wilson; il Cut The Crap dei Genesis, se vogliamo far paragoni) non furono mai meri esercizi pirotecnici né pacchiani sfoggi di abilità virtuosistica fini a se stessi, bensì complementi estetici formali a sostegno di un’arte che, per quanto originale, innovativa e spesso non ortodossa, rimane l’arte della canzone; ed è più che altro sotto questa lente – e non su quella talvolta distorcente dell’etichetta progressive – che andrebbe riscritta la storia dei Genesis, senza tema d’esser tacciati di revisionismo.

Forse allora ci si renderebbe conto, per dirla con Shakespeare, che si è fatto “tanto rumore per nulla”.