Se nessuno vi ha ancora introdotto a Petite Noir, potete cominciare recuperando la discografia precedente a questo nuovo disco, tanto si fa in fretta: l’EP The King of Anxiety e il sorprendente esordio sulla lunga durata, l’album La vie est belle/Life Is Beautiful, pubblicati a qualche mese di distanza l’uno dall’altro nel 2015. Due dischi a cui ha fatto seguito il mini-LP La Maison Noir/The Black House, uscito nel 2018.
L’aspetto che colpisce di più è l’attitudine di Petite Noir a mantenere l’originalità compositiva indipendentemente dagli stili a cui le sue canzoni sono riconducibili. Una qualità palindroma, passatemi il termine, nel senso che non si corre il rischio di sbagliare a pensarla al contrario: modelli eterogenei di musica che calzano in perfetta naturalezza con la sua poetica e la sua estetica di gran classe. Per questo, rimasto a digiuno delle sue produzioni per cinque anni, ho avuto tutto il tempo per riflettere sul fatto se si possa considerare (non paragonare, sia chiaro) Yannick Diekeno Ilunga - questo il suo nome completo - a una sorta di David Bowie panafricano. Con MotherFather, la sua ultima produzione, anche Petite Noir si conferma infatti un musicista alternativo non condizionato dalle proprie origini e dal proprio passato, totalmente libero e pienamente consapevole di sfuggire a qualunque categorizzazione.
Di sicuro, è raro trovare una personalità artistica fuori dagli schemi e così marcata da risultare inconfondibile, qualunque accompagnamento abbia sotto. Il fatto è che nella musica di matrice africana (potremmo usare l’aggettivo black se, nell’accezione a cui siamo più esposti, non costituisse quasi una esclusiva della cultura americana) Petite Noir non teme confronti. Ovunque, nel suo repertorio, riconosciamo le radici electro-afrobeat di ultima generazione e un timbro unico, a sostegno di un miscuglio che suona come una specie di r’n’b dagli echi post-punk, con chitarre ai confini con il metal e atmosfere dalle tinte scurissime. Abbinamenti che ci rendono perfettamente il concetto di noirwave, la definizione che Petite Noir ha coniato per dare delle coordinate a quello che fa, in un impeto di lucidissima e più che giustificata autoreferenzialità.
I genitori di Petite Noir hanno origini congolesi, uno dei cinque posti più poveri della Terra con l’aggravante di una società tramortita da un primitivo conservatorismo ultracattolico. Petite Noir però è un privilegiato. Il mestiere del padre gli permette di nascere a Bruxelles. Da lì crescerà in Sudafrica per poi finire col vivere tra Londra e Parigi. Un cittadino del mondo a tutti gli effetti che non può che suonare la musica del mondo, uno stile la cui traduzione letterale - world music - in questo caso può trarre in inganno e risultare riduttiva.
D’altronde i confini del continente africano coincidono con quelli del mondo stesso, se consideriamo la diaspora e la dispersione a cui vecchie e nuove schiavitù hanno costretto i popoli nati laggiù, nel corso della storia. Spostarsi altrove è stato il destino di molti, ma gli africani sono forse gli unici a cui non è stato permesso di colonizzare nulla. L’aver fortemente condizionato la musica degli ultimi due secoli - magra consolazione, lo so - ha comunque favorito il raggiungimento di una meritata e indiscutibile egemonia, quella sonora (e ritmica, va da sé) sul resto del mondo.
Si ritorna così al punto di partenza, e cioè che Petite Noir è una delle cose più interessanti nel panorama artistico attuale, che MotherFather si candida a disco dell’anno e che se, invece, non lo conoscete e dovete cominciare da qui, fatelo con la traccia #7 del nuovo album, “Simple Things”. Un brano che condensa i cardini dell’arte compositiva di Petite Noir: voce piena che si alterna al falsetto; sound che mescola elettronica a jazz, qui grazie alla sezione fiati diretta dal trombettista Theo Croker; successione di accordi che potrà risultare utile a orientarvi con dimestichezza nel resto della sua produzione. E, poco prima, troverete un secondo featuring a impreziosire l’album, la cantante zambiana Sampa The Great, che presta il suo rap a un’altra perla di questo disco, “Blurry”, uscita come singolo un paio di mesi fa e riconoscibilissima per l’intro in chitarra lo-fi.
MotherFather è frutto di un percorso a ritroso che Petite Noir compie lungo le sue esperienze personali con il razzismo, sperimentato sulla propria pelle durante la sua infanzia a Johannesburg, e con il tema della separazione nell’amore. In dieci canzoni il disco esalta il paradosso della musica, un linguaggio sofisticato e intimo per tradurre nella piacevolezza dell’ascolto anche gli stati d’animo più scomodi e controversi. Pensate infatti a che significato possa avere la fusione in un concetto indistinto (MotherFather, appunto) dei due poli ai lati opposti della vita: se c’è un creatore è maschio e femmina e entrambi i genitori allo stesso tempo, altrimenti che senso avrebbe. Fondamentali anche “Numbers” (la mia preferita) e “Finding Paradise”, due momenti a ridosso di un sound e di una poliritmia riconducibile all’afrobeat, mentre la struggente “Love Is War” e l’effimera “Play” riportano il mood del disco alla libertà espressiva a cui l’artista ci ha educati.
Nel suo nuovo lavoro, Petite Noir si inabissa con determinazione verso scomodi e graffianti richiami ai suoni più ruvidi, per poi risalire con disinvoltura e sublimare in rarefatte atmosfere rituali, tra trance e preghiera, liberandosi dai canoni dell’artificiosità per sposare una purezza senza confronti, consolidando il suo approccio trasgressivo e dimostrando che nella musica nata nell’Africa del terzo millennio si può trovare di tutto perché tutto, davvero, proviene da lì.