Emidio Clementi e Corrado Nuccini hanno presentato Motel Chronicles come la terza parte di una trilogia che comprende anche i precedenti Notturno americano e Quattro quartetti, usciti rispettivamente nel 2015 e nel 2017. Dal punto di vista tematico, tuttavia, il collegamento ideale c’è solo con il primo lavoro, a meno di non voler vedere nella trasposizione del poema metafisico di Eliot un tentativo di allargare lo spettro del discorso, di mostrare ciò che davvero tiene assieme, rende possibili le esperienze raccontate nel primo e nel terzo capitolo di questo trittico.
Motel Chronicles, che Sam Shepard pubblicò nel 1982, è considerato uno dei grandi capolavori della narrativa americana del Novecento, anche se paradossalmente viene da un autore che più che lo scrittore tout court ha fatto il drammaturgo, lavorando sia per il teatro che per il cinema (sua, per esempio, la sceneggiatura di Paris, Texas di Wim Wenders), in quest’ultimo ambiente anche nelle vesti di attore. È un testo di riferimento per Clementi, che se non vado errato lo aveva già citato sporadicamente in qualcuno dei suoi scritti, che fossero romanzi o testi dei Massimo Volume. Ad ascoltare qualcuna delle tracce di questo nuovo disco, non è difficile scoprire il perché: attraverso lo stile secco e asciutto che contraddistingue tutti i grandi scrittori a stelle e strisce da Hemingway in avanti, Shepard presenta brevi istantanee di un’America desolata e spoglia, un abbandono malinconico che stride ancora di più se si pensa che la maggior parte delle brevi prose di cui si compone il libro (ci sono anche delle poesie ma non sono state prese in considerazione per il disco) sono ambientate in California, uno stato di cui l’osservatore medio, specie se straniero, ha un’immagine decisamente diversa.
Su questo sfondo grigio e poco confortante si muovono figure che sembrano uscite direttamente dalla penna di Clementi, ma proprio perché è su questo tipo di personaggi che l’autore marchigiano ha modellato nel tempo il suo stile oggi così inconfondibile. Uomini che vagano nelle sterminate distanze del paese, tra squallidi Motel e città di periferia, spinti da una forza sconosciuta che li fa continuare a muovere, anche se nessuno pare sappia davvero che cosa stia cercando. Nessun dialogo, nessuna riflessione, solo l’asettica registrazione delle cose e delle azioni, l’esistenza nella sua dimensione inesorabile, senza per forza la preoccupazione di trasformarla in un qualcosa dotata di senso.
Il collegamento con Notturno americano, al di là di un’ambientazione geografica simile (anche se lì la grande protagonista era la metropoli) appare dunque giustificato ma con un nota bene: se Emmanuel Carnevali era animato da una febbre spasmodica per affermare il proprio diritto ad esistere, e ingaggiava una lotta titanica per il proprio riconoscimento personale e professionale, qui è come se i vari personaggi rimanessero sullo sfondo, inerti e perennemente in bilico, lasciando emergere il nudo squallore del teatro delle loro vicende.
Da questo punto di vista, siamo in America ma potremmo benissimo essere in Romagna, nella periferia di quella Bologna in cui Nuccini risiede e che è da tempo la patria d’azione di Clementi. Oppure in qualche squallido stabilimento del lungomare di Rimini, in pieno inverno e con il cielo coperto. Luoghi che sono anche non luoghi, insomma, sfondi ideali per gente che si lascia vivere e non sembra avere interrogativi brucianti con cui fare i conti.
Ovviamente non è stato possibile riprodurre l’opera nella sua interezza, si tratta piuttosto di una breve antologia di brani (dieci in tutto, con l’aggiunta di due brevissime tracce strumentali) con Clementi che ha lavorato direttamente sull’originale inglese per poter offrire una versione il più possibile adatta al suo recitativo, senza per questo snaturare il carattere originale. Sulle scelte fatte, chiunque abbia letto Motel Chronicles potrà farsi un’idea: ovviamente ci sono tante delle cose più riuscite, ma altrettante sono rimaste fuori, d’altronde mettere d’accordo tutti non sarebbe stato possibile. Teniamo anche conto che non si tratta di un semplice reading: così come già accaduto nei due capitoli precedenti, Nuccini e Clementi hanno unito le forze per realizzare un vero e proprio album musicale; dove certamente la componente testuale è fondamentale (praticamente impossibile che uno straniero lo possa accostare) ma dove gli strumenti giocano un ruolo non secondario. Anzi, rispetto a Quattro quartetti, dove il paesaggio sonoro era piuttosto scarno, ridotto il più delle volte a semplice accompagnamento per i versi, decisamente ostici, di Eliot, qui si ritorna a quel connubio vincente che aveva caratterizzato il primo passo della trilogia.
Corrado Nuccini si ricorda di far parte di uno dei migliori gruppi Post Rock a livello europeo, e ricama nuclei melodici basici ma al contempo evocativi, utilizzando allo stesso tempo chitarre, elettronica e campionamenti. Si tratta anche di un lavoro corale, forse il più corale che il duo abbia mai prodotto: tante le collaborazioni, da Francesca Bono alla voce (sue i recitativi dell’originale inglese che fanno spesso da sottofondo alla narrazione principale), Jonathan Clanzy a voce e cori, Laura Agnusdei al sassofono, Francesca Baccolini al contrabbasso, nonché un’intera sezione di archi fornita dall’ensemble Concordanze. Per non parlare poi di alcune vecchie conoscenze e compagni di strada: Fabio Rondanini alla batteria (che non ha certo bisogno di presentazioni), Stefano Pilia a basso e violino (ha lavorato coi Massimo Volume nei primi due dischi post reunion con relativi tour) ed Emanuele Reverberi (l’altra mente dei Giardini di Mirò) a tromba e violino.
Che poi in realtà, a sentirlo bene, suona tutto piuttosto rarefatto, il lavoro orchestrale è certosino e resta molto sullo sfondo, quel che spicca è l’atmosfera minimale, spesso notturna delle composizioni. Da ultimo va segnalata anche la prova di Clementi, sempre più espressivo ed evocativo ad ogni nuovo disco, sempre perfetto in ogni singola parola, a questo giro sperimentando anche nuove soluzioni timbriche e di cadenza, una performance nel complesso tra le più variegate abbia offerto in carriera.
Un disco non per tutti, ovviamente, ma a cui tutti dovrebbero provare a dare una chance. Se non altro per scoprire un libro che dalle nostre parti, nonostante sia stato più volte tradotto, non è mai stato elevato al rango di classico.