Strano a dirsi, ma ha alle spalle una carriera da veterano e non ha nemmeno compiuto trent’anni. Marcus King ha fatto molta strada dai tempi in cui era considerato un enfant prodige (la sua prima esibizione pagata fu all'età di otto anni, suonando con suo padre, il chitarrista Marvin King) o da quando Warren Haynes lo prese sotto la sua ala protettrice, inserendolo nel portfolio della sua etichetta, Evil Teen, per poi produrre il suo secondo album omonimo, uscito per l’etichetta Fantasy. Oggi King è un artista affermato, che ha vinto Grammy e si è esibito al Tonight Show, approdo di tutte le stelle di prima grandezza.
Con Mood Swings, il giovane chitarrista ha fatto un nuovo passo in avanti, scartando da quella che era, per quanto ampia, una evidente comfort zone, per abbandonarsi alle sapienti mani di un produttore superstar come Rick Rubin. Sia le ballate country soul di El Dorado che il blues-rock di Young Blood, benedetti da un altro grande produttore, Dan Auerbach, sembrano retaggi di un’epoca lontanissima nel tempo, e i fan del musicista originario del South Carolina si trovano all’improvviso a fare i conti con la bellezza oscura di un disco con cui il chitarrista rimette tutto in discussione. Perché questo album è doloroso e intimo, parla di rimorsi e rimpianti, di solitudine e depressione, di abusi e amori tossici.
Gli anni delle lunghe tournée per promuovere El Dorado e Young Blood hanno lasciato pesanti strascichi, King è finito in un tunnel, in un periodo buio come la pece, in cui abusava di farmaci stabilizzatori dell'umore e antipsicotici, facendo oltre modo uso di un’esiziale automedicazione, in un contesto in cui lo stress faceva riemergere traumi infantili repressi e pensieri suicidi.
Una situazione destabilizzante, che marchia a fuoco le undici canzoni in scaletta, magnificamente prodotte da Rubin, un genio dal pedigree inestimabile, che sa come portare un artista a scavare in profondità nella sua anima e come esprimere al meglio il dolore che lo ha intrappolato.
Tra soffocanti angosce e timide speranze, tutto l’ultimo vissuto di King si riversa nelle undici canzoni in scaletta. Così le sfumature jazzy di "Fuck My Life Up Again" affrontano l’incertezza che si può soffrire in una relazione, "Save Me" cerca la speranza, anche se timidamente, mentre un cuore fragile impara ad amare di nuovo, e la title track (che vede l’insolito uso di una drum machine Rhythm Ace R77), affronta gli effetti di un trama profondo e della conseguente depressione.
Mood Swings è un disco profondamente soul, in qualche modo terapeutico, in cui a farla da padrona è la ballata grondante di sofferenza, che mette a nudo i tormenti un’anima fragile, risucchiata dalle spire di una malinconia dal sapore amarognolo.
Uno dei momenti più incisivi dell’album è "Delilah", che evoca il fantasma di Gregg Allman, mentre King, la cui chitarra assume un ruolo molto più marginale che in precedenza, sfoggia un’interpretazione vocale struggente, l'ondeggiante soul country di "Love Is Bipolar" riporta agli anni ’60, e "Me Or Tennesse" vede il musicista crogiolarsi nell’autocommiserazione di un amore che sembra perduto per sempre, tra la necessità di farmaci che plachino il dolore e un insopprimibile desiderio di pace, che appare come un frammento di speranza in mezzo alla predominante angoscia.
Fuori dall’approccio concettuale di un disco composto di canzoni emotivamente totalizzanti, il binomio King/Rubin riesce nell’intento (anche grazie a qualche azzardo elettronico) di portare il soul blues fuori dagli stereotipi di genere, cercando nuove strade espressive, senza tuttavia mai dimenticare le radici. Un’evoluzione, piaccia o meno, nella breve, ma intensa storia di un artista che, con Mood Swings, non solo è riuscito a scavare nel profondo dei suoi sentimenti, ma è stato in grado di presentarsi al suo pubblico senza nascondersi dietro a quella chitarra, che suona magnificamente. Una sorta di rinascita artistica, un nuovo abbrivio. O forse no, solo un pausa necessaria. Poco importa. Questo disco è bellissimo e tocca le corde dell’anima. Tanto basta.