Abbiamo già discusso fin troppo di come, al giorno d’oggi, fare musica equivalga soprattutto a scegliersi un’immagine e a cercare di usarla come finestra per interfacciarsi col resto del mondo. Coi Social che hanno progressivamente rimpiazzato i siti internet ed una comunicazione che si è fatta sempre più frammentata ed istantanea, anche l’album in sé, peraltro in costante perdita di terreno nei confronti del più snello formato del singolo, rischia di venire sempre più fagocitato da questa narrazione, ridotto ad evento estemporaneo da dimenticare nel giro di un paio di giorni.
È proprio per questo che gente come Keaton Henson va preservata ad ogni costo. L’artista londinese aveva esordito esattamente dieci anni fa, con un disco, “Dear”, divenuto immediatamente un classico nel genere “Folk da confessione intima con produzione Lo Fi”. Se l’idea di mettersi così tanto a nudo, rivelare le proprie fragilità e comunicare col pubblico attraverso una progressiva e inesorabile sottrazione della propria persona, potrebbero sembrare anch’essi elementi di un’esibizione programmata a tavolino, la struggente bellezza delle canzoni è però tale da fugare ogni dubbio.
Strana storia, la sua. Divenuto un piccolo caso dopo l’uscita del debutto, realizzò un secondo disco, “Birthdays”, prodotto da Joe Ciccarelli e con un sound più energico, che fu nel complesso deludente. Nel frattempo, con “Romantic Works”, mise in mostra un talento parallelo di compositore classico, concretizzatosi lo scorso anno con il mezzo capolavoro “Six Lethargies”, vera e propria sinfonia in sei movimenti, eseguito dalla Royal Liverpool Philarmonic Orchestra. Un disco non per tutti, lungo nel minutaggio e non esattamente leggero nell’andamento, ma capace di fare dell’angoscia una vera e propria esperienza estetica.
In precedenza aveva comunque ripreso forma canzone, perché “Kindly Now”, uscito nel 2016, rappresentava un parziale ritorno alle sonorità delle origini, rinverdendo il mito del cantautore solitario dal cuore spezzato (poi la cosa in sé fa ridere, perché la sua ex, la musicista Soko ha recentemente raccontato che in realtà era stato Iui ad abbandonarla).
“Monument” rappresenta un nuovo capitolo, in parte un nuovo inizio. La morte del padre (il celebre attore teatrale Nicky Henson) lo scorso dicembre , la crisi personale con la conseguente fuga in Canada (quasi fosse un segno del destino, è andato a finire in un’altra Londra, questa volta in Ontario) per ritrovare se stesso e approdare finalmente alla registrazione di un nuovo disco. “È una collezione di cose che voglio dire, di modo che possa espellerle io stesso. Gli altri non devono necessariamente ascoltarle. L’ho creato a casa, per lo più da solo, in strane ore notturne e diurne. Quando ne ho registrato la base, inaspettatamente un incredibile gruppo di persone è venuto a sollevarmi sulle proprie spalle e a elevare queste sensazioni non dette a un livello sonoro ulteriore”.
Se sia una rinascita non è dato da sapere o meglio, ascoltandolo attentamente si direbbe che le inquietudini, le fragilità siano ancora lì e che ancora una volta chiedano di essere guardate, quasi volessero definire fino in fondo l’essenza del loro proprietario (“I’m half a songwriter, half a man, not fully either”, canta per esempio nell’iniziale “Ambulance”).
Musicalmente siamo dalle parti di “Dear”, per la gioia di tutti quelli che sostengono che dopo quello non si sia più ripetuto alla stessa altezza. Canzoni inquiete, arrangiamenti come sempre minimali anche se oltre alla solita chitarra acustica compaiono saltuariamente un pianoforte, una tastiera, qualche sparuto accenno di elettronica. La voce è sempre quella, fragile, quasi in falsetto, un timbro tenorile che a tratti sembra voler proteggersi dalle violenze del mondo.
Testi come al solito bellissimi, di uno che ha sempre detto di sentirsi più uno scrittore che un cantautore. Ma nonostante questo, non ci tiene che lo si prenda sul serio, che si penda dalle sue labbra; e in “Bygones”, ultima, drammatica elegia in due parti, sorta di cantilena in un punta di piedi per un mondo che sta finendo, dice: “I get sick of all my songs, don’t sing the words, just read between them; I play till my fingers bleed, just to get you out of me, just to get you on those pages”.
Chi sia questo “tu” da voler mettere sulla pagina non è dato di sapere anche se qualche indizio sarebbe lecito averlo: in parecchi versi si percepisce il fantasma di un amore finito (che sia ancora Soko o qualcun altra non credo sia importante), il padre affiora in un paio di occasioni, dalla struggente “Prayer”, un pezzo che potrebbe aprire il cuore a metà a chiunque, alla delicata “Career Day” dove, tra le altre cose, nel ritornello ripete incessantemente “I’m paper thin, just break me in”, a proposito di tutti i discorsi sulla fragilità esibita.
Nel complesso si tratta di un lavoro più variegato, con almeno un episodio rockeggiante e uptempo (“While I Can”) e qualche maggiore concessione alle aperture melodiche in odore di easy listening (i due singoli “Husk” e “Ontario”, ritornello catchy il primo, ballata da spazi aperti il secondo), senza peraltro dimenticare alcuni esercizi di stile sul tema del Folk americano, a dimostrare che se si padroneggia bene la materia, nessun linguaggio è davvero totalmente obsoleto (in questo senso, “The Grand Old Reason” è un autentico gioiello).
Il disco della maturità o, se preferite, quello della consacrazione. In ogni caso, per chi scrive è il suo migliore, quello che gli si chiedeva dopo un cammino proficuo ma forse ancora privo di una direzione precisa.
Ma se glielo chiederete, dubito che vi dirà di essere arrivato da qualche parte. Per lui la vita è sempre una lotta, un’eterna battaglia contro se stesso e i propri demoni: “This is the fight, losing my sanity, losing my mind, find it my home, I’m growing home”.