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REVIEWSLE RECENSIONI
14/05/2019
Abiku
Montecarlo
Bella notizia il ritorno degli Abiku. Che però equivale ad un uomo che si risvegli dopo un coma profondo durato cinque anni e si debba piano piano riadattare ad un mondo che, nel frattempo, è radicalmente mutato. Me lo avevano spiegato loro stessi, quando ero stato a trovarli nella loro Grosseto, con l’album allora in lavorazione ed un futuro di parziale incertezza ancora davanti a loro.

Sono cambiate tante cose dal 2014, quando “La vita segreta” arrivò sul mercato, mosse poco ma incantò tanti. Allora gli Abiku potevano ancora sembrare un gruppo perfettamente inserito ed inseribile all’interno di una scena Indie che stava però cominciando a mostrare i primi segni di agonia. Oggi, in un panorama musicale radicalmente mutato e sostanzialmente privo di meccanismi di analisi prevedibili, gli Abiku rischiano appunto di fare la fine del paziente risvegliato dal coma che si guarda in giro disorientato senza più capire che cosa stia succedendo.

Oggi un gruppo come il loro appare parecchio fuori dal coro ma ancora più un disco come “Montecarlo”, il terzo in carriera, che non ci offre neppure la rassicurazione di un’immutata impronta stilistica.

Frutto di una lavorazione lunga e di una gestazione travagliata, tra defezioni (la bassista Virna Angelina ha mollato subito all’inizio e non è stata rimpiazzata, del basso si è occupato il cantante Giacomo Amaddii Barbagli) ed incertezze sull’etichetta che lo avrebbe pubblicato (alla fine sono rimasti sotto l’ottima Costello’s) il nuovo lavoro dei toscani si presenta all’insegna di un restyling completo ma lascia intatta la classe purissima che abbiamo sempre riconosciuto loro.

Registrato a Milano, nel celebre Mono Studio di Matteo Cantaluppi, “Montecarlo” abbandona l’impronta Pop Rock estremamente chitarristica de “La vita segreta”, per andare ad abbracciare un sound a tutto tondo, fatto di Synth e ritmi Funk, dove a predominare sono linee di basso piene di groove e tastiere avvolgenti, con Edoardo Lenzi protagonista assoluto ma con Lorenzo Falomi che appare perfettamente integrato nella line up (nello scorso disco era arrivato a registrazioni quasi concluse) e che utilizza la sua chitarra in maniera meno evidente, rendendola però straordinariamente complementare al sound della band.

È un disco che guarda alla Motown ma anche alla dolcezza sofisticata di Destroyer, senza lasciar fuori le interpretazioni moderne di una certa Black Music, dai Dirty Projectors ai Childhood.

Il tutto, senza rinunciare a quella che è sempre stata la più grande dote di questa band: l’accessibilità, il gusto per la melodia. Brani come l’iniziale “Faraone al Lunapark” e “Sarchiapone” sono semplicemente irresistibili e si ballerà tantissimo anche dal vivo, mentre un pezzo come “I miliardi” è potenzialmente una hit da capogiro, scanzonata nel testo (la verità dell’amore che vince più che volentieri di fronte alle sirene del successo mondano) e letale nella musica, con un ritornello che già al primo ascolto non vi uscirà più dalla testa (l’avevo ascoltata quando era ancora in lavorazione; risentita un anno e mezzo dopo, me la ricordavo ancora perfettamente). Per non parlare poi di “Ti sparerei” o della più riflessiva “Ciao mare”, altri episodi in cui il gruppo mostra una coesione ed un livello di ispirazione assoluto.

Esistenzialmente diverso da “La vita segreta”, che partiva più dal lato intimo e privato della realtà, per poi allargarsi ad una dimensione globale, “Montecarlo”, già nel titolo, si appropria di un’icona del piacere mondano per andare ad attaccare la frivolezza e la superficialità di un certo modo di intendere i rapporti, tra inseguimento di soldi facili, egoismo e alienazione da Social Network.

Bravissimo Giacomo Amaddii Barbagli, che oltre ad essere come sempre l’uomo principale dietro le composizioni, è arrivato ad una maturità vocale degna di nota, cimentandosi con tonalità ed inflessioni parecchio distanti da quel che aveva fatto finora.

Alla fin fine, l’unica cosa che si può rimproverare ad un lavoro del genere è la sua eccessiva brevità: 25 minuti sono decisamente troppo pochi (qualche anno fa lo avremmo forse classificato come ep) soprattutto se si considera che, su nove tracce, le canzoni vere e proprie sono solamente sei, visto che le restanti tre sono brevissimi interludi strumentali, i cui titoli vanno ad evocare elementi simbolo della capitale monegasca. Le idee da cui sono partiti erano molte di più ma alla fine hanno inserito solo quello di cui erano soddisfatti al 100%. In effetti, ad ascoltarlo tutto di fila, si avverte un insieme coerente e compatto, questo di sicuro è un grande pregio.

Difficile collocare gli Abiku in questo 2019, soprattutto se consideriamo che cantano in italiano ma si sono spostati definitivamente verso lidi che in Italia sono ancora del tutto sconosciuti. Rimane che hanno fatto un gran disco, speriamo solo che ci sia gente senza pregiudizi disposta ad ascoltarlo.


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