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REVIEWSLE RECENSIONI
03/08/2022
Dawes
Misadventures of Doomscroller
I Dawes con “Misadventures of Doomscroller” abbandonano la loro confort zone classic rock ed esplorano nuovi territori musicali come il jazz, il progressive e la fusion.

I Dawes non hanno neanche trentacinque anni ma hanno già percorso tutte le tappe di ascesa-declino-e-risalita tipiche delle rock band. Sono stati i beniamini della critica con i primi quattro dischi (North Hills, Nothing Is Wrong, Stories Don’t End e All Your Favorite Bands), sono finiti nelle retrovie con i due lavori successivi (We’re Gonna Die e – soprattutto – Passwords), per poi riguadagnare terreno con l’ultimo Good Luck with Whatever, un riuscito aggiornamento del sound proposto da Jimmy Iovine a inizio anni Ottanta con Tom Petty, Bruce Springsteen e Dire Straits. Chi li conosce, inoltre, ha ormai capito come il loro modus operandi sia quello di agire per concept, dedicando ogni disco all’esplorazione di una precisa stagione del classic rock.

 

Prodotto dal collaboratore di lunga data Jonathan Wilson (Father John Misty, Angel Olsen), per questo nuovo Misadventures of Doomscroller i Dawes hanno stravolto il loro approccio alla composizione e hanno guardato ai dischi degli Steely Dan di metà anni Settanta. Per cui al classico mood da cantautorato rock tipico della band viene innestata un’interessante vena fusion, con strutture progressive e assoli di stampo jazz. Il risultato è un disco per certi versi massimalista, dove tutto è portato agli estremi, a partire dal minutaggio delle canzoni, dal momento che due di queste superano i nove minuti (“Someone Else’s Cafe/Doomscroller Tries to Relax” e “Sound That No One Made/Doomscroller Sunrise”), una tocca gli otto (“Everything Is Permanent”) e altre due (“Joke in There Somewhere” e “Joke in There Somewhere [Outro])”, se messe assieme – dal momento che una confluisce nell’altra – sfiorano i sette minuti.

 

Nel corso dei tre quarti d’ora di durata del disco, i fratelli Taylor e Griffin Goldsmith (rispettivamente voce/chitarra e batteria), Wylie Gelber (basso) e Lee Pardini (tastiere) continuano a interrogarsi sulle sorti del mondo – argomento trattato anche nel precedente Good Luck with Whatever –, andando a toccare temi ambientalisti e ribadendo come la salvezza avvenga solo attraverso il riconoscimento della grandezza insita nei piccoli gesti. Questo spirito introspettivo si riflette anche nella produzione di Wilson, bravissimo nel rendere i sette pezzi che compongono l’album molto naturali e organici, facendo respirare le canzoni e dando l’impressione all’ascoltatore di trovarsi nella stessa stanza dei musicisti, che non fanno altro che suonare inseguendo la musa del momento. Il risultato è molto vicino a dischi dei Grateful Dead come Wake of the Flood, From the Mars Hotel e Blues for Allah, lavori nei quali la band di Paolo Alto cercava di far convivere il folk e il country di Workingman’s Dead e American Beauty (modello dei primi Dawes assieme a Crosby Stills & Nash e Jackson Browne) con la lezione del Miles Davis di E.S.P. e Bitches Brew.

 

Insomma, onore ai Dawes, che dopo otto album e quasi quindici anni di carriera non hanno avuto paura ad abbandonare la propria comfort zone, usando i brani – per usare le parole di Taylor Goldsmith – come “un trampolino da cui saltare per poi perdersi”, con lo scopo di realizzare “una raccolta di musica, più che una raccolta di canzoni”. Obiettivo ambizioso, soprattutto in un periodo in cui gli algoritmi delle piattaforme di streaming premiano i singoli a discapito degli album, ma – artisticamente parlando – pienamente centrato.