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REVIEWSLE RECENSIONI
27/05/2018
Daniel Blumberg
Minus
Una musica che suona come un dilacerante dubbio taciuto, un urlo ricacciato in gola, un’inquietudine che toglie il fiato e azzera la razionalità, un vena aperta da cui sgorga il sangue di mille tribolazioni

Sconosciuto ai più e relegato in una nicchia indie frequentata da aficionados e addetti ai lavori, Daniel Blumberg ha comunque alle spalle un notevole bagaglio artistico, messo al servizio di band come gli Yuck, gli Howling Hex, gli Oupa, e un filotto di collaborazioni importanti con gruppi del calibro dei Low e dei Lambchop.

Una carriera all’insegna del “mordi e fuggi”, dal momento che queste militanze sono durate il bagliore di un lampo, ma per converso utile a mettere del fieno in cascina per un nuovo progetto musicale, declinato finalmente in prima persona. Dall’esperienza vissuta al Cafè Oto di Dalston, locale votato alla musica d’improvvisazione e alle nuovissime tendenze, Blumberg ha costruito dal vivo la scaletta che va a comporre questo Minus, avvalendosi dei servigi di una band spettacolare, composta da Jim White (batterista dei Dirty Three), Ute Kanngiesser (violoncello), Tom Wheatley (contrabbasso) e Billy Steiger (violino).

Registrato nella bucolica quiete della campagna gallese e prodotto Peter Walsh (Simple Minds, Peter Gabriel, Scott Walker) Minus è un album complesso, non di facile approccio, figlio di una visione musicale aperta e non convenzionale, in cui trovano equilibrio e misura il tormentato soliloquio interiore di Blumberg e una musica in dimensione espansa, libera di vagare oltre i confini del prevedibile.

Una musica che suona come un dilacerante dubbio taciuto, un urlo ricacciato in gola, un’inquietudine che toglie il fiato e azzera la razionalità, un vena aperta da cui sgorga il sangue di mille tribolazioni. Un mondo di una bellezza disarmante, che si apre con il pianoforte della title track, in uno sfilare ipnotico di note malinconiche, depresse, pervase da quel romanticismo arreso che ha fatto grande la poetica tormentata di Jason Molina.

Un mondo, quello di Blumberg, in cui succede l’inaspettato e l’irreparabile, come quando la languida melodia di The Fuse, che è disegnata con il tratto morbido di un pianoforte che cita addirittura Elton John, viene letteralmente stracciata dalle scosse elettriche di furore primigenio e annichilente.

In Minus c’è, come si diceva, una predisposizione all’improvvisazione, che viene sublimata nei dodici minuti e mezzo di Madder, capolavoro deviato e sperimentale in cui Blumberg trita e rimastica i Talk Talk di Laughing Stock, Vic Chesnutt, Robert Wyatt e Tim Buckley, spingendo la visione verso una chiosa rumorosa, schizofrenica e free.

Un album che rapisce nell’andamento apparentemente ovvio di Stacked, ballata alla Neil Young, in cui al falsetto di Blumberg fa da contrappunto lo sfarfallio di un violino nevrotico e disturbante, o che intrappola nel caracollante loop rotatorio e nei ritmi spezzati dell’allucinata Permanent, canzone che vira, poi, nell’intuizione di un ritornello di bellezza improvvisa e struggente.

Se è vero che Minus non è un disco per tutti i gusti, è altrettanto vero che questo straordinario impianto di melodia, allucinazioni, fremente tensione e fragilità emotiva potrà diventare per molti una sorta di istant classic, da consumare senza soluzione di continuità per molto, molto tempo. Come una bella donna il cui fascino complicato e respingente vi fa perdere letteralmente la testa, così Minus sa ammaliare con trame complesse, tortuose deviazioni, particolari apparentemente astrusi e ombrosi ristagni. Tanto che ci sentiamo di suggerirvelo come uno dei dischi più emozionanti di questo 2018.