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REVIEWSLE RECENSIONI
12/10/2019
Giallorenzo
Milano Posto di Merda
Un autobiografismo trasfigurato in visioni notturne che dietro al generale tono ironico e demenziale, nascondono una tristezza e una domanda di significato tanto più drammatica, in quanto mescolata con la consapevolezza che non potrà mai essere soddisfatta.

È arrivato come un fulmine a ciel sereno, questo esordio del progetto Giallorenzo, monicker dietro al quale si nascondono vecchie conoscenze della scena indipendente italiana.

È arrivato quasi del tutto inaspettato, per un’etichetta importante come La Tempesta e ci ha messo molto meno dei suoi 23 minuti di durata, per sbaragliare la routine dei miei ascolti quotidiani ed imporsi come autentica rivelazione di questo nuovo autunno musicale.

All’origine di tutto, credo ci sia stato un rapporto di amicizia: Pietro Raimondi, titolare del progetto Montag e Giovanni Pedersini, cantante, chitarrista e mente principale dei Malkovic, si conoscono da una vita, hanno condiviso palchi e studi universitari e lo scrivere un disco assieme appariva forse come l’esito più naturale di questo sodalizio.

Ad affiancarli troviamo un membro per parte dei rispettivi progetti: Fabio Copeta dei Malkovic (che qui però suona la batteria e non il basso) e Marco Zambetti, che accompagna Montag dal vivo.

Ci sono poi alcuni ospiti come Luca Fois dei Quercia e Generic Animal, che hanno prestato la loro voce nei cori del singolo “Condizioni meteo critiche”.

E poi, imprescindibile, c’è Milano. Il capoluogo lombardo non è solo la città dove vivono i quattro membri del progetto ma anche il teatro in cui si svolge l’intera vicenda narrata. “Milano posto di merda” è infatti un concept piuttosto complesso che parte dalle avventure surreali di un ragazzo morto e tramutato in una sorta di fantasma, peregrinante tra le strade e i quartieri che lo hanno visto in vita, alla ricerca di un amore perduto e mendicante sprazzi di concreta esistenza e di significato ultimo, mentre intorno tutto scorre come al solito e nessuno sembra accorgersi della sua presenza, esattamente (pare) come accadeva quando era in vita.

La finzione narrativa (che si può conoscere e approfondire nella bella fanzine allegata al disco), è però anche il pretesto per omaggiare i luoghi della propria quotidianità, in un’incessante altalena di odio e amore, da un’iniziale ingratitudine che nel finale sfocia in una clamorosa palinodia, con il protagonista costretto ad ammettere il suo reale amore per la città che lo ha ospitato.

Un autobiografismo trasfigurato in visioni notturne che dietro al generale tono ironico e demenziale, nascondono una tristezza e una domanda di significato tanto più drammatica, in quanto mescolata con la consapevolezza che non potrà mai essere soddisfatta.

Prendiamo “Rasta che fa le foto”: è sostanzialmente una storia d’amore, con l’io narrante che prova a ritrovare la ragazza a cui aveva dato appuntamento, senza ricordare il posto e senza neppure la certezza che lei ci volesse andare. Quel “Come mai ti cerco sempre dove non sei?” del ritornello è allora un grido struggente che provoca però una risata divertita, nel momento in cui ci si rende conto che si può applicare perfettamente anche al personaggio del titolo (chi non lo ha mai incontrato almeno una volta negli eventi di Milano? E chi non si è almeno per mezzo secondo guardato attorno, nella segreta aspettativa di scorgerlo?).

Allora ecco che il “posto di merda” che dà il titolo al disco diviene quello dove tutti noi che viviamo da queste parti ci siamo mossi per anni, e riconoscerne luoghi e dinamiche non può che rendercelo più caldo e famigliare; anche perché, come si diceva prima, c’è sempre una grande empatia nel tono con cui si raccontano queste storie e si evocano quegli spazi.

“Esterno notte” ed “Esselunga Stabbing” assumono così la forma di ballate acustiche, composizioni appena abbozzate ma ugualmente dense di struggente bellezza, sorta di Folk americano in chiave italica, per raccontare le contraddizioni di un luogo da cui comunque non ci si riesce a staccare.

Spazio anche alle suggestioni impressionistiche della cronaca, da “Krypton” (il recente caso del giovane che ha bloccato la circolazione di nove treni, sostenendo di provenire dal paese di Superman) a “Kevin ragazzo superdotato” (da un annuncio erotico sulla parete di un cesso pubblico) che però in entrambi i casi divengono metafora dello struggente desiderio del protagonista di incontrare chi risponda al suo bisogno, chi possa riempire il vuoto che ha dentro.

Il tutto presentato in una splendida veste Lo Fi, con un tono dimesso e a tratti artigianale tipico dei vecchi Demotape ma allo stesso tempo con una produzione nitida, che valorizza gli strumenti e le voci (spesso molto dentro al mix ma ottimamente armonizzate e compenetrate) di Pietro, quella principale, e di Giovanni, che si occupa dei controcanti.

È un po’ quella scrittura dei primi anni Dieci, quando si usava il termine “Indie” senza vergogna e con disinvoltura, quando Le luci della centrale elettrica erano il fenomeno del momento, I Cani si stavano affacciando timidamente sulla scena, i Verdena erano sempre una garanzia e artisti come Babalot erano quelli che bisognava citare per fare la figura degli acculturati alle cene con gli amici.

Non è un disco nostalgico però, se per caso ve lo steste chiedendo. È un disco dove i nostri fanno esattamente quel che piace loro fare, dove la carica melodica di Montag incontra i ricami chitarristici dei Malkovic (anche se qui le distorsioni praticamente non esistono ed anche gli episodi più accelerati hanno un feeling semi acustico), producendo una sintesi sempre perfettamente equilibrata tra le due anime.

Sono solo 23 minuti, e se fosse uscito vent’anni fa lo avrebbero classificato come “Ep”. Eppure, qui dentro c’è un universo intero di sogni, speranze, delusioni, cadute e risurrezioni. Se amate Milano ascoltatelo. Se odiate Milano, ascoltatelo lo stesso (a maggior ragione).

Perché la vita è meravigliosa ma il suo senso è spesso inafferrabile. E la domanda è forse ciò che ci rende vivi, anche quando pensiamo di essere morti. La domanda e l’amore. Perché dopotutto, come scrivono loro, “Non è facile tornare in vita da vivi. La carne non è abbastanza, l’ideale lascia soli. (…) È stato vederti che mi ha fatto essere qualcosa. E non si può tornare a essere niente quando si è qualcosa.”


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