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REVIEWSLE RECENSIONI
12/11/2024
Wunderhorse
Midas
Pur restando ancorata al grunge e all'alternative rock anni '90, la creatura di Jason Slater muove un ulteriore passo in avanti nella creazione di un suono distintivo, grazie a un disco ispirato, scarno e diretto.

Quando nel 2022 esce Cub, opera prima targata Wunderhorse, in molti avevano alzato il sopracciglio per la sorpresa: il ventiquattrenne Jason Slater, reduce da una stagione frenetica ed esaltante con i Dead Pretties, tornava a dare lustro a un certo suono anni ’90, imparentato con il rock alternativo e il grunge. Un’operazione di recupero suggestiva e tutt’altro che sciatta, che aveva esaltato la proposta, portando il giovane musicista agli onori delle cronache (indie), laddove, forse, nemmeno lui pensava di poter arrivare.

Quello era un progetto prevalente solista, ambizioso, certo, ma in una fase ancora embrionica, per quanto suggestiva. Questo nuovo Midas, pur partendo dalla medesima consapevolezza e da un inesausto amore per gli anni ’90, alza ulteriormente il livello dell’asticella, affinando le idee del primo album e innalzandole a una forma più compiuta, per quanto, comunque, figlie di un’espressività diretta, grezza e senza fronzoli.  

Registrato in Minnesota presso i leggendari studi Pachyderm (Nirvana, PJ Harvey), Midas è il primo album dei Wunderhorse come band fatta e finita. Al fianco di Slater, infatti, ci sono Harry Fowler (chitarra), Jamie Staples (batteria) e Pete Woodin (basso), un quartetto che sembra nato anni fa, tanta ed evidente è l’unità d’intenti. Così, dopo il notevole e inaspettato successo di Cub, che ha spinto il gruppo in turnèe a fianco di artisti del calibro di Fontaines D.C. Pixies e Foals, i Wunderhorse sono diventati un tutt’uno e non solo l’espressione del loro leader, circostanza che ha portato a una visione più ampia, in qualche modo più rotonda.

Voce strascicata e ruvida, sferzate elettriche e riff uncinanti, sono il contorno per melodie scartavetrate ed emozionanti.

La title track apre il disco con una raffica di progressioni di accordi e un ritornello abbaiato ma efficace. Rapidi, disadorni e diretti, Slater e i suoi sodali posseggono una straordinaria efficacia nell’asciugare il suono da ogni orpello e lasciare che la scarna struttura ossea delle canzoni faccia il lavoro più importante: cogliere l’attimo col fascino distorto della presa diretta, senza che alcun lavoro di post produzione venga a inficiare la veridicità della proposta, accentuata da testi appassionati e taglienti.

"Silver", ennesimo singolo, è un’altra canzone che arriva subito al cuore con una splendida melodia, mentre in "Rain" la band crea una sorta di vortice intorno alla voce del Slater, che canta “Do you feel the rain?” con una tensione che brilla nella polvere e nella sporcizia che la canzone solleva. 

Midas è un album che, prevalentemente, racchiude al suo interno un senso di vulnerabilità, come se questa fosse un parto oscuro della mente di Slater. Una vulnerabilità sia in termini di suono, spesso sfilacciato e claudicante, seppur nascosto da chitarre aggressive, che nei testi, come avviene, ad esempio, in "Emily", punto di collisione fra Nirvana e Fontaines Dc (e i Nirvana tornano, quasi clonati, nella splendida "Arizona"), quando il frontman canta “All'interno di questo macchinario, Tutti sono pazzi, Non io, forse" o in July con quell’affermazione tranchant che recita “Sono pronto a morire”. Slater è abile nel mettere in luce la propria anima anche in un breve periodo di parole, un talento che è cresciuto incredibilmente quando la band ha trovato la sua forma definitiva.

In un mondo in cui apparentemente il pregio è less is more, i Wunderhorse sono un richiamo al passato che evoca magnificamente il meglio della cultura rock degli anni ’90, asciugandolo da inutili fronzoli e portando alla luce l’essenza di un suono. Tutto è ovviamente derivativo, ma nulla fa pensare a una blanda replica di una gloria che fu. Le canzoni sono asciutte, scelgono il rumore per nascondere la melodia, e non hanno bisogno di altro, se non della sincerità, per fare il pieno di consensi. Giocano quasi a nascondersi, ad avvolgere la loro espressività spartana in un anfratto di clandestinità. E se i riferimenti della loro proposta emergono in modo chiaro, quasi ineluttabile, non è la nostalgia a vincere la partita, ma il piacere di ascoltare canzoni che sanno evocare emozioni, forse risapute, ma comunque genuine.