Ecco un esempio significativo di come una band nata nel periodo storico più retromaniaco e derivativo possibile possa comunque arrivare a costruirsi una carriera degna di nota, distinguendosi dalla massa informe degli act tutti uguali a se stessi, pur senza realizzare nulla che abbia anche un solo barlume di originalità.
Il primo disco dei bdrmm, uscito nel 2020, in piena epidemia Covid, era fondamentalmente una lunga variazione sul tema di Loveless, Souvlaki, Psychocandy e simili. Bravissimi, per carità, canzoni ben costruite e un suono chitarristico rumoroso quanto basta per far gioire anche tutti gli orfani dei Sonic Youth. Uscivano per la Rock Action, l’etichetta fondata dai Mogwai, e anche questo particolare veniva letto come una garanzia di qualità e di purezza delle intenzioni.
Li vidi dal vivo proprio assieme al gruppo scozzese, nel primo tour che riuscirono a fare non appena il mondo riaprì le porte, e li trovai davvero in palla e coinvolgenti. Fossero rimasti così, però, sarebbero rimasti appannaggio di pochi nerd alla ricerca spasmodica dell’ennesimo gruppo di nicchia da citare con gli amici.
Col successivo I don’t Know, invece, dei bdrmm si sono accorti tutti: merito di una scrittura nettamente migliorata, con l’assimilazione di influenze varie, dall’elettronica al più classico Indie Rock, in un equilibrio di elementi che, con le dovute proporzioni, li ha posti sulla stessa scia di nomi ultra storicizzati come Radiohead e Notwist.
Un upgrade notevole e quasi del tutto imprevisto (nonostante si intravedesse già qualche avvisaglia che potessero non essere una delle solite band) ancora più stupefacente se si pensa che, come hanno rivelato solo di recente, all’epoca fossero travagliati da mille problemi e non fossero del tutto certi che sarebbe ancora esistita una band dopo la registrazione del disco.
Recuperata la serenità, anche grazie a un tour esteso e ricchissimo di soddisfazioni, le lavorazioni del terzo album (il più difficile, secondo la vulgata) si sono svolte in tutt’altra atmosfera, serena a tal punto che il nuovo cambiamento di sound è stato portato avanti con naturalezza e quasi senza colpo ferire.
Messe quasi del tutto in soffitta le chitarre, relegate in seconda fila come riempitivo delle strutture ritmiche, moltiplicati i sintetizzatori, i beat e tutto l’armamentario digitale, i bdrmm hanno completato un lavoro che si muove in punta di piedi sul dance floor, un’elettronica quieta, notturna e meditativa, che tanto deve al sound design e alle colonne sonore (soprattutto a quelle firmate da Thom Yorke e da Trent Reznor, hanno specificato), senza dimenticare di omaggiare dovutamente anche David Lynch; il quale, per essere uno che ha sempre fatto un altro mestiere, di musicisti ne ha influenzati parecchi. A tal proposito Ryan Smith ha raccontato che, nel periodo in cui stava componendo i nuovi pezzi, si alzava alle cinque del mattino, metteva su un film del maestro di Missoula, e provava a scrivere qualcosa che potesse anche solo avvicinarsi alle suggestioni da lui evocate.
Prodotto ancora una volta da Alex Greaves e registrato al Nave, uno studio ricavato da una chiesa sconsacrata alla periferia di Leeds, Microtonic rappresenta la svolta electro dei bdrmm, tanto che qualcuno potrebbe azzardare a dire che sta alla loro discografia come Kid A sta a quella dei Radiohead.
Niente sconvolgimenti, però: le differenze con I Don’t Know sono sopratutto di vestito e contesto, la band è sempre la stessa e lo si avverte bene, dopotutto un brano come “John on the Ceiling”, al di là della veste inedita, che ne esaspera la componente Synth, è una canzone tipica del quartetto, soprattutto nelle linee vocali che culminano in un ritornello trascinante. Stessa dinamica per “Infinity Peaking”, dove ritornano le influenze Dream Pop, per un episodio molto indovinato, che colpisce per il suo feeling ipnotico.
Altrove i cambiamenti sono maggiori: l’iniziale “Goit” si avvale della collaborazione con Syd Minsky-Sargeant (Working Men’s Club) e si sente parecchio, anche se rispetto alla proposta del gruppo dello Yorkshire, qui la componente Disco appare diradata, la cassa dritta c’è ma è meno ingombrante, per tutta la traccia permane un’atmosfera di sospensione e non si decolla mai.
“Snares” e “In the Electric Field” sono i due titoli dove il nuovo corso risulta più evidente: la prima vive sul contrasto tra strofa in spoken word (piuttosto fastidiosa, a dir la verità) e ritornello cantato, in un generale clima di agrodolce opacità. La seconda vede invece il featuring di Olivesque, artista di Manchester ancora nelle fasi iniziali della sua carriera (al momento solo una manciata di singoli), che presta la sua voce in un brano che si muove a metà tra Four Tet e la Björk avanguardista degli ultimi tempi.
E se la title track, unico brano strumentale in scaletta, cita più esplicitamente il lavoro sulle colonne sonore, “Lake Disappointment” è uno dei pochi dove il ritmo si alza leggermente e si potrebbe veramente ballare.
Menzione speciale per “Clarkycat”, dove il gruppo si diverte a lasciarsi andare in una suggestiva coda strumentale, e dove il beat si sposa ad una generale sensazione narcotica.
Il finale, con “The Noose”, è quasi una fumosa elegia, la messa in musica di quello stesso universo distopico che lo stesso Ryan Smith ha dichiarato di aver trattato nei testi, attingendo da fonti illustri come La metamorfosi di Kafka o la numerosa produzione saggistica di Mark Fisher.
Sarò sincero: preferivo i bdrmm di I Don’t Know, anche se soprattutto per una questione di gusti personali. In Microtonic non tutto funziona benissimo e alla lunga si avverte la mancanza della poliedricità del predecessore. Detto questo, il quartetto di Hull ha saputo ancora una volta osare, dimostrando di non volere adagiarsi su una comoda immagine di se stesso. Tre dischi in cinque anni, ognuno diverso dall’altro, dicono di un gruppo con tutte le carte in regola per lasciare qualcosa di importante.
La sfida più grossa, ora, sarà quella di portare le nuove canzoni sul palco: dal vivo Smith e soci sono famosi per il loro suono esplosivo, mentre questi nuovi pezzi appaiono a volte eccessivamente trattenuti. Sarà lecito aspettarsi molte più chitarre, nonché una batteria a dare una bella spinta. Tempo un paio di settimane e lo scopriremo.