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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
08/07/2019
The Gun Club
Miami - La voce davanti
L’album intero è una fenomenologia, una declinazione continua di un’oscurità (dark) onnipresente, tanto nei paesaggi esteriori, quanto nell’intimo del cantante e di tutti i suoi “doppi” che sfilano nelle 12 canzoni come una processione di flagellanti incappucciati che si puniscono pur senza riconoscere un Dio a cui chiedere l’assoluzione.

In copertina ci sono tre volti appena sfocati che sembrano affogare nel trasparente verdastro delle swamp che presto sarebbero state territorio sintetico per Sonny Crockett e Rico Tubbs.

La strenua lotta contro il soffocamento della vita e del mondo tutt’attorno porta Jeffrey Lee Pierce a servirsi come feticcio del più Amerikano degli stili: il country. Quello stesso country che anno dopo anno pareva sempre più un vessillo per la destra repubblicana più reazionaria, ma che i Gun Club distorcono e imbastardiscono fino a fargli ritrovare un’originale seppur deviata verginità, raccontando parallelamente un American Psycho che frequenta la metropoli con l’alienazione di un vagabondo delle Pianure del sud. Country-contro. Un sound che sostiene l’autore nei suoi insistiti tentativi di “tornare a casa”, nel senso più ampio; tornare agli affetti, al prato davanti alla veranda in cui sedersi a bere una birra con il vicino guardando il football. Ritornare in quel luogo da cui si era partiti urlando e sbattendo forte la porta. L’emozione crescente del tentato ritorno costringe ad alzare il volume, elettrificare e distorcere la vecchia tradizione del campione solitario che torna al focolare dopo avere ucciso i “cattivi indiani”.

Così si spiega, per esempio, l’autopsia che il gruppo fa di “Fire Of Love”, vecchia hit del 1958 di Jody Reynolds, al tempo ricalcata sulla moda del twang chitarristico di Duane Eddy, che nell’idea di Pierce diventa un mostruoso riff, quasi fossero AC/DC in abiti mariachi. E la cover di “Run Through The Jungle”, il brano più tormentato e sinistro dei campioni del country-rock democratico, i Creedence. Ma anche quella specie di surf da sballo di “John Hardy”, in cui Dotson si immedesima nell’equivalente hardcore di Dick Dale mentre Jeffrey si sgola nel racconto della vecchia storia del ferroviere del West Virginia, neanche fosse una ballata di The Times They Are A-Changin’.

Ma non è finita: Jeffrey Lee è veramente uno dei pochissimi che può fregiarsi del titolo di Erede di “quel” James Morrison, con il quale condivideva tra l’altro il retaggio di giovane borghese bianco cresciuto nel profondo sud, nonché la non invidiabile abitudine di mortificare la propria esistenza affogando nelle bottiglie vuote di Southern Comfort. Riesumando Jim direttamente dal Pere Lachaise, ne sfigura il crooning baritonale con uno yodel che è più un incubo nel dormiveglia che il virtuosismo del vecchio Jimmie Rodgers o la malinconia sentimentale del contenporanea Chris Isaak.

Ciononostante, Pierce resta un personaggio tanto misconosciuto che pare incredibile sia nientemeno che il reale anello mancante tra il Re Lucertola e il futuro anti-divo Kurt Cobain. La sua voce sta sempre davanti, sbattuta sul proscenio come l’attrazione della serata. Dietro di lei stanno quinte su quinte, strati su strati di chitarre che suonano punk, rock e blues all’unisono, senza soluzione di continuità, procedendo su binari paralleli e sovrapposti, generando un fragore avvolgente dal caldo riverbero antiquato. Come nell’invito sciamanico e lunare di “Carry Home”, o nell’invocazione femminea di “Mother Of Earth” (con lo stesso twanging tra Ombre Rosse e El Mariachi) che chiude il disco così come si era aperto: immagini in controluce, tutte con lo stesso sfondo e tutte risucchiate nello stesso vortice, “in the dark”.

L’album intero è una fenomenologia, una declinazione continua di un’oscurità (dark) onnipresente, tanto nei paesaggi esteriori, quanto nell’intimo del cantante e di tutti i suoi “doppi” che sfilano nelle 12 canzoni come una processione di flagellanti incappucciati che si puniscono pur senza riconoscere un Dio a cui chiedere l’assoluzione.

Dark like darkness

Dark live a devil out

In the woods now

Eppure non è mai un musica tetra o banalmente orrorifica; il buio che si porta dentro è il buio di un ricordo sfumato di paure infantili mai del tutto sopite; così che in “Texas Serenade” (uno sconfortato ricordo del padre?), quando Jeffrey Lee grida “that he's dead on the lawn”, un brivido reale scende lungo la spina dorsale: quella è la voce di chi ha provato ad essere una persona migliore; un ragazzo normale; un figlio modello. Ma non ci è riuscito.

Oh, but I didn’t change, I just had to work

Yeah, but I didn’t change, I just had to work

And now I’m home, and now I’m home

Do you still want me?

Now, that I’m home

“Watermelon Man”, il rituale alla Gris Gris che risveglia dalla catatonia della vita, è percussiva, sfaldata e assai meno strutturata dei lunghi voodoo su Fire Of Love. “Bad Indians”, probabilmente il punk del 1982, non finì in classifica allora ma avrebbe potuto finirci una decina di anni dopo: un’esplosione chitarristica talmente diretta che non sembra possibile sia scaturita dal raffinato gusto retrò di Watson.

Prima di loro, gli yodel distorti di “A Devil In The Woods” risucchiati dall’ennesimo black train lanciato verso sud e l’anthem hard-country di “Brothers And Sisters”, che spalanca ampi scenari sonori da fuga di mezzanotte su highway assolate pur tormentandosi su versi di innocente incesto sotterraneo.

Questo Miami è un album subdolo, assai meno immediato rispetto al gelido terrore che pervadeva Fire Of Love; ma è pur carico di pathos quasi teatrale. Spazza via e ricostruisce generi, stili e approcci alla musica popolare ormai sedimentati da decenni di ascolti incerti e disattenti; manca dei silenzi e delle esplosioni di Preaching The Blues o For The Love Of Ivy, ma è un fluire continuo di musica e coscienze ricolme di punizioni autoinflitte; di promesse non mantenute e di occasioni perdute. Alcune per sempre.


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