«Contro chi fa credere la guerra un dovere
Contro chi vuole dominio e potere
Contro le medaglie all'onore, alla santità
Per tutta la gente che grida, "Libertà"»
“Contro”, Nomadi, 1993
«Contro tutte le guerre
Contro ogni forma di odio e discriminazione
Contro le dittature
Contro la fame e povertà
Che la pace vinca sempre»
Dalle liner notes di Mete, Alex Ricci
Sicuramente, fra le mete di Alex Ricci vi è anche quella di un mondo migliore, come scritto chiaramente nelle note di copertina. E a tal proposito, è davvero indovinato e metaforico l’artwork, con l’artista immortalato mentre imbraccia una chitarra speciale (da lui costruita) standosene appoggiato a una scala che fuoriesce dal fondo della sua borsa da viaggio.
Grazie alla bellezza di questi dieci brani, grazie alla bellezza della musica si possono cercare di combattere le brutture di questo mondo. Ce lo hanno insegnato i Nomadi, con la canzone “Contro”, che è subito tornata in mente a chi scrive leggendo le affermazioni di Alex, semplici, ma forti e potenti, e facendo tornare indietro la memoria a quei momenti in cui le parole e le melodie di una composizione conquistavano più di un fucile, di un’oppressione e un’ingiustizia. Sembra un’eternità, sono passati quasi quarant’anni, ma Live Aid dimostrava come la politica “cattiva” dovesse fare i conti con la potenza e la meraviglia di un motivo eterno, “We Are the World”.
“Noi Siamo il Mondo” è anche il motto per il terzo album in studio di Alex Ricci, il quale riesce a far convivere nella raccolta un coacervo di generi e stili che portano dalle ritmiche spensierate di Cuba alle sonorità fangose del blues di Chicago, unendole alla tradizione del cantautorato italiano e a sensuali groove mediterranei. Uno straordinario ponte collega Ry Cooder e i Buena Vista Social Club a Muddy Waters, Otis Rush, Eric Clapton, Stevie Ray Vaughan, John Mayer e Gary Clark Jr. e li traghetta verso Pino Daniele e Rino Gaetano.
Si potrebbe definire un nuovo approccio sperimentale per creare world music: il punto di partenza è lo stesso, ossia l’obiettivo di mescolare e amalgamare le differenze al fine di arrivare a un risultato insolito e geniale, e, in questo caso, forse ancor più spiazzante. Tuttavia l’arrivo, la meta, per parafrasare nuovamente il titolo, è quella di legare ogni canzone a un sapore, una nota, una struttura diversa e unire queste influenze sotto un unico tetto, il disco.
Alex Ricci incarna tale concezione e tanto altro, distinguendosi comunque per originalità, termine raro in questo momento dove fa clamore più lo scimmiottamento che il tentativo di dire qualcosa di nuovo. Ricci lo fa partendo da tutti questi artisti (e molti altri) che lo hanno ispirato, attingendo pure dalla letteratura, dalla poesia e dal teatro: il risultato, bellissimo, è qualcosa di non catalogabile. Ecco l’essenza di Mete, dopo il pop raffinato, intriso di influenze folk de La verità (2021) e l’immediatezza e l’urgenza rock di Gonna rossa (2013). E sicuramente l’autore ne ha raggiunte di mete nel disco, almeno tante quante le canzoni, ognuna diversa per costruzione ed espressione eppure tutte così potentemente a lui collegate.
Si comincia così con il pop elegante e moderno di “Ma cos’è”, pezzo arrangiato con straordinaria maestria, dal groove travolgente e l’umorismo nonchalant, a metà strada tra Gaetano e Capossela. “Sciolgo il ghiaccio nella vodka, Radio Ciao suona una polka .Cambio stazione a fine canzone, c’è un tormentone che mi fa impazzire. Prova a girare ma è tutto uguale, metto un vinile per non pensare dove la musica andrà a finire”, canta con fare goliardico Alex prima di entrare in un ritornello orecchiabile e sfavillante.
Si giunge poi ai ritmi sudamericani dell’intensa ballata “Sempre ti porterò”. Cuba, le Hawaii e il mood alla Santana portano in dote un assolo di chitarra finale da brividi, anche perché è d’uopo ricordare che Ricci non è solo un ottimo compositore, ma è, soprattutto, uno straordinario chitarrista. Un virtuoso che sa districarsi benissimo pure nel reggae oriented di “Dimmi”, con una svisata tra Mayer e il grande capo Clapton, e nel placido, catartico strumentale, “Paradise Beach”, di estatica atmosfera.
Saggezza, riconoscenza e malinconia si rincorrono in “Capitano”, piacevolmente incanalata in linee melodiche care ai Mumford & Sons e ispirata dalla poesia di Gianni Rodari e da Scilla, la nave tanto ammirata da Alex al porto di Giulianova, città in cui vive dopo essersi trasferito ormai parecchi anni fa da Atri. E il mare, quell’aura di festa pensando alle onde, alla sabbia e alla spiaggia fanno da contraltare al lato blues che emerge senza far prigionieri in “Difendi con i denti”, un brano davvero tosto. Qui si viaggia diretti sull’Highway 61 lungo le sponde del Mississippi, in una pazza corsa da Minneapolis a New Orleans, con tappa, ovviamente, a Memphis.
“Mi disse un vecchio, la sera prima di andare via, difendi con i denti quello che ami…Signore scendi in terra, ferma tutta questa guerra” intona con grinta il chitarrista italiano, mentre la sua adorata Gibson erutta note malinconiche, quel blues sporco e sincero che si ritrova in un’altra vetta di Mete, la profonda, potente e nostalgica “Adesso lo so”, una canzone poetica, piena di ispirazioni, ove sembra B.B. King e Stevie Ray Vaughan si incontrino insieme a Robert Cray e ai “discepoli” John Mayer e Gary Clark Jr.
“Dall’Adriatico al Mediterraneo” potrebbe essere il sottotitolo che racchiude le ultime tre tracce, due strumentali e un cantato sui generis carichi di emozione e commozione. “Capodatri” fa venire la pelle d’oca: quanta passione e profondità! Alex accarezza la sua sei corde memore dello stile di Eric Clapton e Pino Daniele, ma riesce a creare qualcosa di nuovo dimostrandosi musicista a tutto tondo. Un vero artigiano delle sette note come d’altronde è tradizione nella sua famiglia, dal nonno ebanista al padre, illustre uomo di spettacolo.
“Comu du ue’ ue’” è sicuramente la composizione più singolare. Alla voce/cori la giovanissima e talentuosa figlia Alice, per un pezzo che mescola sonorità caraibiche a “litanie” tribali con vista sull’Africa. Come sempre la chitarra di Ricci funge da collante rendendo magica la melodia più spassosa dell’album. “Transumanz” (scritto originariamente per uno spettacolo teatrale) termina il viaggio onirico, intimo e didascalico percorso in venticinque minuti senza sosta, una vera e propria oasi di salvezza.
«In ogni brano di Mete c’è un solo di chitarra e mi fa piacere. E sono molto felice di abbinare a un’intelaiatura blues il cantato in italiano. Ho suonato tantissime chitarre: dalle adorate Gibson alla Fender Stratocaster, ma ve ne sono pure di classiche e acustiche, oltre alla bizzarra sei corde della copertina, costruita durante il lockdown usando anche alcuni pezzi di legno del nonno».
Ottimamente prodotto dallo stesso Ricci e dal geniale Daniele “Bengi” Benati, Mete è un disco che emerge in questo ennesimo anno difficile che è il 2024: le guerre e le continue discriminazioni hanno allontanato l’uomo da un percorso di solidarietà e fratellanza. Ma c’è ancora una cosa che lega e accomuna ogni essere umano all’altro. È quel suono primordiale che risiede dentro di noi, quel ritmo scandito dal battito del cuore che è anche il ritmo dell’universo, con lampi e impulsi come su uno spartito. Dalla musica può scaturire una potente energia buona che unisce e non divide. Questo Alex Ricci lo sa ed è quello che esce dalle sue canzoni, dalla sua chitarra. Missione compiuta, Alex.