A voler fare una classifica delle meteore che hanno attraversato la storia del rock, con molta probabilità i mancuniani Longview occuperebbero una delle prima piazze. Composti dal cantante e chitarrista Robert Duncan McVey (autore di tutti i brani della band), dal chitarrista Doug Morch, dal bassista Aidan Banks e dal batterista Matt Dabbs (poi, sostituito da Francesco Mendolia), i Longview nacquero a Manchester nel 2002 e iniziarono a farsi una reputazione, diventando una delle attrazioni principali del Night And Day Cafe, uno dei più noti locali per musica dal vivo della città.
Qui, vengono notati da un manager del 14th Floor Records, una sussidiaria della Warner, che ha annoverato nella propria scuderia artisti come Damien Rice, Biffy Clyro e David Gray, e quindi, messi sotto contratto. Il tempo di perfezionare il tanto materiale già pronto, e la band si trova a registrare e mixare Mercury, quello che resterà l’unico album in carriera e che vedrà la luce il 21 luglio del 2003 (negli Stati Uniti, uscirà due anni dopo con una scaletta leggermente diversa).
Un solo album, una botta e via. Ed è un peccato, perché Mercury è un signor disco, la scrittura di McVey è ispiratissima, e il primo singolo, Further, ha un ottimo riscontro commerciale, viene utilizzato nella colonna sonora della serie tv One Tree Hill e anche per la pubblicità degli Us Open.
Il disco scala le classifiche, trainato anche da entusiastiche recensioni della stampa specializzata, che premia l’esordio dei Longview con critiche e voti più che lusinghieri. Perché la proposta della band è prevedibile, certo, ma le canzoni sono dannatamente buone. Nulla di nuovo sul fronte del brit pop (rock), dal momento che Mercury è figlio dell’epoca e della cultura da cui è stato generato. Canzoni in cui si alternano chitarre rombanti e ballate malinconiche, che suonano risapute, certo, ma che palesano, tuttavia, sincerità d'intenti e la capacità di cesellare melodie cariche di pathos e romanticismo. Il classico disco col cuore in mano, insomma, ricco di sentimenti, di ritornelli da mandare a memoria, di momenti da condividere con il proprio amante.
La scaletta inizia proprio con Further, il singolo di lancio, che ben racconta il mood della proposta: un’apertura che sembra rubata ai Cranberries, le chitarre che graffiano, lo svolgimento melodico e malinconico, il ritornello arioso che conquista al primo ascolto. La successiva Can’t Explain, pubblicata anch’essa come singolo, è anche meglio: un robusto giro di basso, le chitarre in bell’evidenza, la punteggiatura del pianoforte e una melodia di mestizia infinita, roba da cuori spappolati e groppi alla gola seriali.
Se brani come When You Sleep e Nowhere mettono in evidenza il lato più rock e muscolare della band, con decise aperture verso lo shoegazing, sono però le ballate a conquistare, grazie alla filigrana di trame delicatissime (gli struggimenti volatili di If You Asked), al sapore agrodolce di nostalgie estive (Falling For You) o alla depressione senza appello di un intreccio malinconicissimo di chitarra acustica e archi (Falling Without You).
Vista la vita breve della band (che in realtà si scioglie ufficialmente solo nel 2015), Mercury è un disco che è rimasto nascosto nelle pieghe della storia, dimenticato un po' da tutti a dispetto dell’intrinseca bellezza di dodici canzoni ispirate, schiette, dannatamente autentiche, capaci di creare un languido immaginario nel cuore di quelle anime romantiche, che cercano nella musica la colonna sonora per accompagnare i propri struggimenti interiori. Un disco prevedibile, certo, ma così clamorosamente sincero da risultare, ancora oggi, un'avvincente e irresistibile meteora.