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REVIEWSLE RECENSIONI
26/09/2024
Suki Waterhouse
Memoir of a Sparklemuffin
Un disco dal formato monumentale (18 tracce per 53 minuti di durata) e un’impostazione esplicitamente autobiografica attraverso l’utilizzo dell’inusuale metafora del ragno sparklemuffin porta Suki Waterhouse nel mondo del Pop. Un lavoro interessante e valido, che si muove su uno spettro di influenze e sonorità varie, piacevoli e sempre a fuoco.

Recentemente si è parlato di Suki Waterhouse soprattutto per un’intervista da lei rilasciata, dove rivelava per la prima volta una sua passata relazione con Bradley Cooper, avvenuta quando lei era ancora nei suoi vent’anni. Vizi del mestiere, nel momento in cui si persegue una carriera poliedrica e si ha a che fare con lo stardom. Quello che però non tutti sanno è che l’attrice e modella britannica ha avviato anche una sua carriera musicale, sebbene i risultati non siano stati finora eccelsi.

Memoir of a Sparklemuffin, che esce per una label leggendaria (e dedita a tutt’altro tipo di musica, anche se in tempi recenti si è un po’ diversificata) come la Sub Pop, arriva a due anni di distanza dall’esordio I Can’t Let Go, anche se le radici di questa avventura vanno ricercate molto più indietro, in tutta una serie di singoli pubblicati a partire dal 2016.

 

Questo disco si presenta con un formato monumentale: 18 tracce per 53 minuti di durata, e un’impostazione esplicitamente autobiografica, attraverso l’utilizzo dell’inusuale metafora dello sparklemuffin (ignoro se esista una versione italiana del nome). Si tratta di una specie particolare di ragno che vive solo in Australia, il cui maschio corteggia la femmina attraverso una danza che, se non gradita, porterà al divoramento dello stesso da parte della diretta interessata.

Facile dunque vederci l’allegoria di questa odierna società della performance, dove si è costretti, se si vuole sopravvivere, essere costantemente all’altezza di non meglio specificate aspettative. Il disco racconta questo, è un’antologia di brani che, uno dopo l’altro, testimoniano gli sforzi che Suki ha portato avanti per sentirsi accettata da un mondo, quello dello star system, che più spesso fagocita, piuttosto che premiare.

 

E qui veniamo al punto dolente: scegliendo, come lei ha fatto, il linguaggio del Pop, gli standard qualitativi si alzano ancor di più e il gioco rischia di farsi davvero duro. La domanda infatti è semplice: che senso ha un disco così, quando esistono già Taylor Swift, Lana del Rey, Billie Eilish, Olivia Rodrigo, che hanno dimostrato di non avere rivali nel campo dello scrivere ed interpretare la canzone “perfetta” per radio e piattaforme streaming, prendendosi in massa il pubblico generalista?

In teoria, nessuno. Il Pop, per sua natura, cattura soprattutto quegli ascoltatori che non nutrono nessun interesse per le scene e i loro sviluppi, e che sono costantemente alla ricerca di nomi nuovi da ascoltare; si rivolgono, al contrario, all’ascoltatore medio, che prende quello che passa il mercato senza farsi troppe domande. In questo senso, e considerando che non incide neppure per una major, difficilmente ci sono le condizioni perché questo corposo Memoir possa arrivare da chi più di tutti potrebbe apprezzarlo.

 

Eppure siamo al cospetto di un lavoro interessante. Realizzato con il contributo di una squadra eterogenea di nomi, tra cui figura gente come Jonathan Rado (Weyes Blood, Beyoncé, Father John Misty), Brad Cook (Con Iver, War on Drugs, Snail Mail) e Rick Nowels (James Blake, Lana del Rey), e con la partecipazione eccezionale di Greg Gonzalez dei Cigarettes After Sex (un altro che le canzoni di successo è abbastanza capace di scriverle) in “To Get You”, l’album si muove su uno spettro di influenze e sonorità piuttosto varie, cosa che non può che rendere piacevole l’ascolto, ma quando vira esplicitamente sulla potenziale hit, si mantiene sempre perfettamente a fuoco.

A tratti pacchiano (“Supersad”), a tratti derivativo (“Model, Actress, Whatever” sembra uscita dal canzoniere di Lana del Rey, “OMG” e “Legendary” mostrano non poche dipendenze da Taylor Swift), questa sorta di diario sentimentale riesce a mantenere sempre piuttosto in alto l’asticella qualitativa, anche se non nego che con una manciata di canzoni in meno avrebbe funzionato molto meglio.

Sinceramente mi sembra più probabile che Suki Waterhouse continuerà ad essere ricordata per la sua carriera di modella (quella di attrice non sembra al momento essere decollata); detto questo, Memoir of a Sparklemuffin merita senz’altro una chance, anche solo per rendersi conto che in ambito Pop si possono realizzare cose egregie pur senza possedere un nome ultra noto.