Molti temevano, non a torto, che la morte di Andy Fletcher avrebbe potuto porre fine alla storia Depeche Mode. D’altra parte, anche se a livello compositivo il suo ruolo era ormai marginale, se non praticamente nullo, è altrettanto vero che nei suoi quarantadue anni di militanza, Fletch ha vestito i panni dell’angelo custode, è stato il collante del gruppo, quello che ha tenuto in piedi la baracca anche nei momenti più difficili (parecchi, a dire il vero), e ha sempre indicato la strada, prendendo per mano i propri compagni d’avventura e le loro insicurezze. Nonostante una vita artistica tumultuosa, Fletch ha dato le linee guida, ha mantenuto alta la dignità artistica della band, e non è un caso che i Depeche Mode, di dischi veramente brutti, non ne abbiano mai pubblicati. Certo, la qualità dell’ispirazione, nel corso dei decenni, è sensibilmente diminuita, ma la grandezza della band non è mai stata messa in discussione, anche grazie a tour sempre più, visivamente ed emotivamente, intensi.
Memento Mori è un album decisamente più riuscito di alcuni suoi predecessori, e anche se il materiale è stato concepito prima della dipartita di Fletcher, è difficile non pensare che il disco non sia, in qualche modo, un ultimo appassionato omaggio all’amico scomparso. Non è solo il titolo a evocare la triste mietitrice (“ricorda che devi morire”) e alcune esplicite foto contenute nel booklet, ma soprattutto il mood di una scaletta cupa, livida, votata a una malinconia immersa nella pece nera. Un album che potremmo definire esistenziale, che parla di morte per celebrare la vita e l'amore, che racconta della nostra caducità, di come affrontare l’esistenza, segnata dall’inevitabile, certo, ma foriera di momenti bellissimi, che non dobbiamo lasciarci sfuggire.
Martin Gore e Dave Gahan sono due sopravvissuti, non possono fare a meno di guardare al passato, di rielaborare il lutto, ma piantano i piedi nel presente, affermando con forza la propria vitalità artistica.
Coadiuvato in fase di scrittura da Richard Butler (Psychedelic Furs) e prodotto da James Ford, il duo rilascia un disco dai suoni bellissimi (merito del lavoro della nostra Marta Salogni), incredibilmente brillanti se rapportati al clima talvolta claustrofobico di dodici canzoni, bilanciate sul perfetto punto di fusione tra synth pop, industrial e melodie dolcissime, che riescono a insinuarsi nella sofferta coltre oscura che è il filo conduttore della scaletta.
A tratti, quella profondità emotiva che aveva segnato le migliori canzoni dei Depeche Mode, resta un po’ in superficie, e prevale il mestiere di chi la materia la gestisce con il pilota automatico. A parte "Ghost Again", una ballata brillante e radiofonica, che riflette sulla mortalità e che riannoda i fili che legano la band al synth pop anni ’80, mancano, inoltre, veri e propri istant classic; eppure, quando i due azzeccano la canzone, tirano fuori gioielli che non sfigurerebbero nei loro lavori migliori.
In tal senso, l’opener "My Cosmos Is Mine" è perfetto biglietto da visita di un disco crepuscolare, un gioiello di livida elettronica, fotografia dei giorni terribili in cui viviamo, ma anche un‘invocazione di speranza, un invito a cambiare il nostro approccio esistenziale per salvare il mondo. Un incipit ostico e disturbante, che contrasta con la melodia telefonata della successiva "Wagging Tongue" e la melodrammatica "Don’t Say You Love Me", il cui arrangiamento d’archi, ma è opinione personalissima, toglie un po’ di pathos a un brano altrimenti struggente.
Altrove, i DM volano a livelli altissimi, come nel disturbante clangore industrial che percuote la sofferta "My Favourite Stranger" o nelle atmosfere tanto lunatiche quanto orecchiabili del pulsare notturno di "Caroline’s Monkey". Allo stesso livello di songwriting si pongono "Always You", che possiede l’aura oscura di Violator e centra un ritornello ipnotico e stranamente euforico, "People Are Good", quasi disturbante nella sua fredda e cruda esposizione elettronica, e il post punk vibrante di "Never Let Me Go".
Se il pop soul orchestrale di "Soul To Me", per quanto fortemente attrattiva, appare un po’ fuori sincrono rispetto alla scaletta del disco (a tratti viene in mente l’Elvis Costello di "The House Is Empty Now"), la chiosa "Speak To Me" riesce a fermare il battito del cuore con uno slancio emotivo potentissimo, un connubio tra disperato romanticismo e anelito di speranza, sigillo perfetto di un album che gioca a scacchi con la morte (il Bergman evocato nel video di "Ghosts Again") ma il cui cuore trabocca di vita e di vitalità.
Difficile dire se questo nuovo lavoro rappresenti il capitolo finale della carriera discografica della band (come forse il titolo potrebbe suggerire), ma se così fosse, il sipario si abbasserebbe con il miglior disco dei Depeche Mode dai tempi di Playing The Angel.