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REVIEWSLE RECENSIONI
10/03/2018
King Leg
Meet King Leg
Ben vengano giovani come King Leg, che esordisco con un album che tracima passione ed entusiasmo. E ben vengano, sia chiaro, anche se non sempre dimostrano di saper gestire la materia con la necessaria sapienza e talvolta si perdono nel groviglio di idee interessanti, ma non sempre messe a fuoco

Ben vengano giovani come King Leg, che esordisco con un album che tracima passione ed entusiasmo. E ben vengano, sia chiaro, anche se non sempre dimostrano di saper gestire la materia con la necessaria sapienza e talvolta si perdono nel groviglio di idee interessanti, ma non sempre messe a fuoco. Sono i difetti della giovane età, che il tempo e il talento sapranno, forse, trasformare in virtu’. E di talento, Bryan Joyce, in arte King Leg, ne ha da vendere.

Nato a Omaha, nel Nebraska, Bryan è cresciuto con il sogno di diventare comico. Poi, un trasferimento a Nashville, ha sparigliato le carte in tavola e il giovane King Leg ha iniziato a suonare, avendo come punti di riferimento il classic country, il rock ‘n’ roll delle origini e la musica alternative degli anni ’80 e ’90. Un altro trasferimento, questa volta a Los Angeles, ha dato l’abbrivio a qualcosa di più serio, la firma con la prestigiosa etichetta Sire Records (quella dei Ramones, per intenderci) e la composizione di un lotto di canzoni confluite in questo primo album, benedetto dalla produzione di Dwight Yoakam e Chris Lord-Alge (noto anche da noi per aver collaborato con Caparezza).

Che dietro la consolle ci siano due fuoriclasse si coglie fin dalle prime note: il suono è scintillante, le atmosfere producono un’interessante amalgama fra classico e moderno e mettono in risalto quell’energia evocata dalla spaccata che immortala Bryan nella cover dell’album. Il disco, nel complesso assai vivace e divertente, palesa però alcune ingenuità dovute all’inesperienza.

Il timbro particolare di Bryan, la cui voce richiama alla mente un’improbabile connubio fra Roy Orbison e Morrissey, eccede spesso nel vibrato, ostentato in modo esagerato anche quando il mood delle canzoni non lo richiederebbe. King Leg, poi, si gioca le carte migliori con un’incredibile estensione e un’ottima gestione anche delle parti baritonali. Tuttavia, questo continuo saliscendi, testimonianza di un’ugola di tutto rispetto, nasconde una certa debolezza interpretativa, dando vita a una prova vocale di potenza, ma sostanzialmente monocorde.

Le canzoni, poi, non sono tutte imprescindibili. Se da un lato, infatti, è evidente che il ragazzo possiede un’ottima conoscenza delle proprie fonti d’ispirazione, è altrettanto evidente un certo disordine nell’esposizione. Si passa, infatti, dal jingle jangle byrdsiano dell’iniziale Great Outdoors, agli echi smithsiani di Wanted e A Dream That Never Ends, fino al power pop a la Big Star di Seeing You Tonight e agli echi di un lontano passato, evocati nella cover, datata 1962, di Running Scared di Roy Orbison, frustrata da un’enfasi francamente stucchevole.

Se qualche ottimo episodio non manca (Comfay Chair è una ballata sentita e struggente, Walking Again è un tuffo a capofitto negli anni ’50 e coglie l’essenza del country rock più basico), il disco palesa uno stile ancora non ben definito.

Insomma, King Leg gioca troppo spesso a fare il novello Roy Orbison, cosa che non sempre gli riesce, e tenta di amalgamare stili musicali storicamente lontani, senza avere ancora quella visione matura che gli consentirebbe di armonizzare le sue estrose, ma non sempre centrate, intuizioni. Come si diceva all’inizio, il talento però non gli manca, e se riuscirà a mettere il proprio giovanile ardore al servizio dell’arte, sarà in grado di fare grandi cose. Solo il tempo ce lo dirà.