Un disco bellissimo, Medusa. Capitano Merletti è un musicista tutto d’un pezzo, coerente e curioso, sempre voglioso di apprendere, desideroso di stupore e meraviglia. Ci accompagna in un viaggio all’interno del proprio paesaggio sonoro con sincerità, un bagaglio carico di influenze e quella sua straordinaria capacità di trasformare tali ispirazioni in qualcosa di speciale, in canzoni che dureranno negli anni, sbloccando ricordi, evocazioni di momenti importanti della vita.
Così, se da un lato ascoltare per intero il suo lavoro fa sobbalzare dalla sedia, portandoci indietro, a cavallo tra la fine dei Sixties e l’epopea iniziale del successivo decennio, quando furoreggiavano la musica psichedelica e le sonorità west coast, con Byrds, Buffalo Springfield, Simon & Garfunkel, CSNY e America nel mirino, dall’altro il polistrumentista veneto fa sua ogni singola traccia, con un cantato in inglese perfetto, l’originalità nella scelta degli arrangiamenti e delle ritmiche, e la stesura di liriche visionarie e metaforiche, ove il sole, la natura, il vento e le stagioni servono a costruire similitudini.
"And you fly in the sunshine
Out the blue
As the summer now is new
And your day is coming true"
(“The Summer Is Always New”)
Ogni composizione viene personalizzata, plasmata dal suo creatore, si palesa inequivocabilmente la sua passione per la sperimentazione mentre passato e presente si intrecciano, e l’autore ottiene l’effetto desiderato. Lo si prova subito con le iniziali “The Summer Is Always New” e “Always Needed Something”: sorprendono per come sembrino nuove e in ugual modo classici evergreen, facendoci respirare anche l’aria dei R.E.M. di Reveal, disco legato in alcuni pezzi indissolubilmente ai Beach Boys.
L’intero Medusa è poi permeato da un’atmosfera vintage grazie alla scelta degli strumenti azzeccati in ogni traccia; Alessandro Antonel aka Capitano Merletti li suona quasi tutti, ed è un fiorire di chitarre acustiche a 6 e 12 corde (queste ultime tipicamente legate al sound dei Byrds), elettriche e bouzouki, cui si aggiungono la batteria, il piano e il flute, davvero indovinato nell’orecchiabile uptempo “Earth Eyes”.
L’autore pone in luce inoltre una particolare attenzione per le percussioni, come il simil glockenspiel di “You, My Home” e, in generale, colora di interessanti sfumature alcuni pezzi grazie ai cori di Emma Grace e Rosita Kèss e ai violini, piano e synth di Dnezzar, peraltro talentuosi compagni della stessa etichetta, la Pipapop Records, valida label discografica indipendente che insieme all’altrettanto pregiata Beautiful Losers contribuisce a far conoscere artisti meravigliosi.
“Ho sperimentato molto, cercando soluzioni personali. Mi rendo conto che va nella direzione contraria rispetto alla musica di oggi”, afferma candidamente Antonel, con “Plastic Man” e “Little Sun (Me & The Alien)" a confermare questa sua fame di ricerca e assemblaggio di suoni, in un impasto indie folk che ricorda Beck, Kevin Morby e quel geniaccio di Badly Drawn Boy nel suo capolavoro assoluto, ossia The Hour of Bewilderbeast.
Un artista sui generis Alessandro, legato alla “semplicità” della vita in un paesino vicino a Venezia, lontano dai rumori e dalle attrazioni delle grandi città e disposto a vivere senza compromessi con lo showbiz, pur essendo salito negli anni sul palco insieme a Marlene Kuntz, Levante, Brunori Sas, Tre Allegri Ragazzi Morti, Maximo Park e Fatboy Slim. Un artista abile a creare armonia da forze contrastanti, in grado di trovare la giusta via nel fare e disfare trame musicali, dove le inquietudini spirituali e personali sono motivo di crescita.
"Life is flying away, we’re dead" (“The Birds’ Song”)
"I’ve lost my ego and my words, in the wind" (“Ghost Wind”)
"Take care of her burning heart, alone, melt the ice with the fire" (“The girl with the sun in her eyes”)
Echeggiano come un mantra le parole chiave di un trittico che a livello sonoro si tinge ancor più di psychedelic rock con profumo di Beatles, Pink Floyd e un pizzico di progressive pop; segue l’oscura “Looking Up At The Tall Mistery Of The Trees”, dominata da un basso duro, penetrante e tastiere lisergiche, che chiude il Vol.1, già edito poco prima dell’estate e ora completato con la seconda parte.
Eccoci così al disco 2: i ritmi veloci con i violini quasi piangenti dell’ermetica “Autumn’s Time”, il bagliore di speranza di “Kissing With No Shame The Golden Pain” e la frustrazione di “Evil Girl” lo aprono collegandolo subito per melodie e tematiche al precedente.
Un lungo lavoro di produzione e registrazione (3 anni) ha dato un corpo e un’anima a una flotta di canzoni concepita dal 2009 a oggi, un album della vita, come piace dire a lui, in cui scorrono piacevoli l’emblematica “Telephone”, carica di effetti synth e un basso alla “Love Is In the Air”, la sognante “Sandy Hair in Summer Rain”, fino a tuffarsi nella poetica “Daybreak”.
A distanza di cinque anni dal precedente Shortwaves From The U.F.O. Channel, Capitano Merletti ritorna davvero alla grande con un progetto che si distingue anche per la mancanza di ripetitività, spesso non facile quando si estende il lavoro a ventuno brani, pur con una marcata coesione tra le parti. Veder convivere folk acustico, elettronica vintage con sonorità anglo-americane mischiate a un cantautorato pop italiano non è cosa di tutti i giorni. Richiede tempo, come già detto, sacrificio e studio, e tanta arte.
"Mother nature forgive me
I am lost in time
Trying searching something new
Before I come back to you"
(“Mother Nature”)
Un’arte che si riversa magicamente anche nelle cinque tracce finali, con la fantasia narrativa e l’ampio respiro di “The Magician Cat”, i fraseggi stuzzicanti dell’intensa “Oh Lord, My Love” e l’elettricità di “Every Time I Turn Around You”. E la chiusura lascia senza fiato. “Mother Nature” e ”Sunday” concludono un viaggio spettacolare, gonfio di emozioni, che convincono, chi lo voglia, che la musica è ancora un rifugio dove tornare bambini e vivere quelle sensazioni di scoperta, attesa e sorpresa. Sentimenti che mai dovrebbero arenarsi nel prosieguo dell’esistenza.