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REVIEWSLE RECENSIONI
Mazapè
Lo Straniero
2024  (Pioggia Rossa Dischi, La Tempesta Dischi)
ALTERNATIVE ITALIANA
8/10
all REVIEWS
10/02/2025
Lo Straniero
Mazapè
Un album che è un esercizio di equilibrismo, in bilico fra squarci assolati ed ombre assordanti, fra provincia estrema e geografie dell’anima, panorama perfetto per accogliere un puzzle di solitudini, movimenti, decadenze e paure.

Siamo le nostre ombre. O, forse meglio, le nostre ombre sono il nostro negativo. Sono le uniche a conoscerci tanto quanto noi stessi, a sapere tutto, per davvero tutto, di noi. Siamo le nostre ombre, e per gli altri rischiamo di essere solo quelle. In vite dalle tinte sempre più individualiste, abbiamo perso completamente interesse verso “l’altro”, e “l’altro” ha perso aspetto, forma, volto. È diventato l’ennesima ombra sulla nostra strada.

Il colloquio con le ombre non si fa per telefono. Sui nostri dialoghi muti non s’affaccia “giraffa” o altoparlante”. Lo scriveva Montale, in una poesia meravigliosa che si chiama “A tarda notte”.

Poi, però, fa continuare la poesia quasi come se fosse un racconto di Bolaño: “Anche le parole però servono, quando non ci riguardano, captate per errore di una centralinista e rivolte a qualcuno che non c’è, che non sente”.

Tornano almeno un paio di tòpoi ricorrenti in Montale, la “parola muta”, pur nella sua necessità, e quel velo di incomunicabilità fra simili che si è trasformato, per l’appunto, in un vero e proprio colloquio con le ombre. E però “le parole servono, quando non ci riguardano”: forse la svolta sta lì, nella parola. Una parola che racconti per esorcizzare, più che per consolare.

E noi abbiamo decisamente bisogno di esorcizzare, fosse anche solo perché siamo del tutto dominati dalla paura, in ogni ambito e quasi in ogni istante. Paura spesso indotta, sia chiaro, e d’altro canto è, storicamente, il miglior modo per esercitare il potere. Ma comunque paura o, nel migliore dei casi, quantomeno incertezza, di quella che ti taglia gambe e respiro.

E quindi sì, ci servono antidoti, ci serve qualsiasi legno marcio che possa diventare una zattera, ci servono parole da urlare. È il solito discorso: se le cose le dici a voce alta, gli dai un nome, ti spaventano meno, un po’ il caro vecchio “I mostri non muoiono, quello che muore è la paura che ti incutono” di Cesare Pavese.

 

Mazapé, quarto album de Lo Straniero, band nata nel 2014 nel bel mezzo del triangolo industriale, è esattamente questo: un concentrato di ombre, paure e parole per cercare di anestetizzarle.

Prodotto per una metà da Federico Dragogna e per l’altra metà da Mattia Cominotto e dalla stessa band, Mazapé (titolo che omaggia la collina “ammazza piedi”, a due passi dal loro studio di registrazione) arriva come un lavoro dai toni cupi, in cui venature acustiche incontrano abissi elettronici, eccezionali nell’accompagnare un racconto sempre in bilico fra decadenza e luce, polvere di provincia e natura incontaminata.

Disco aperto dai timbri caoticamente mediterranei di una “A mare” segnata dallo strumming argentino delle chitarre acustiche e dai ruggiti legnosi della sezione ritmica, perfetti per accogliere versi tremanti come “Dopo un segno sulla schiena hanno messo per iscritto che non valevo nulla/ Ma io avevo una ragione per farmi trascinare dal mare e dal vento/ Dal caldo degli attraversamenti/ Dal freddo degli avvertimenti/ Dal dolore dei denti/ Dalla fretta dei luogotenenti”.

A seguire, “Pianura paura” fa scarnificare il semi-spoken delle strofe da un meraviglioso ed oscuro basso in odor di dark wave, prontamente accoltellato, negli incisi, da schitarrate elettriche e taglienti, su cui si abbatte perfettamente la muscolarità dei versi: “Serve un'altra notte per sentire il corpo/ Per diffondere una luce sullo sporco/ Per distinguere la noia con la morte/ Per convincerci che siamo più forti/ Mi chiedo a voi che ve ne fotte di un luogo ormai dismesso/ Siamo corpi che diventano materia fusa/ Mi chiedo a voi che ve ne fotte di un luogo ormai dismesso/ Se occupiamo un posto che per voi è come un cesso”.

 

“Fuochi per la festa del paese” è un incastrarsi polveroso di chitarre classiche ed elettronica oscura, a incorniciare un piccolo gioiellino di elettrofolk claustrofobico, segnato, anche in questo caso, da un cantato dai tratti spoken, polveroso e definitivo, da: “Certo questo non è il posto dei sogni/ Ma le estati passate sulle strade/ Per scappare dalle case/ Riempiono i racconti/ Certo non puoi dimenticare di quegli inverni passati a battere i denti/ Chiusi negli appartamenti/ Non bastavano i sogni” a “Fotter biciclette alle due alle tre alle sette alla posta facevan la posta/ Dal comune si accendeva il lampeggiante/ Luce dal catarifrangente/ I fuochi per la festa del paese sulle tombe”.

“Lady mina” scorre lungo un’elettronica suadente e viscosa, a cui s’abbraccia l’arpeggiare liquido della chitarra, perfetto per accogliere parole dai colori disperati. “Cosa abbiamo visto/ In dieci anni di sonno/ Una nube di fumo/ Nel silenzio di un buco/ Cosa è rimasto/ Dopo un salto nel vuoto/ Una nube di fumo/ Nel silenzio di un buco”.

Giro di boa è una “Croci” demolita da un pattern ritmico infuocato e da una linea di basso granitica, su cui si abbattono le piogge distorte delle chitarre elettriche, a braccare asfissie letterarie come: “Corri, corri, fuggi da tutta ‘sta gente/ Anche se sei innocente/ Non ne sai niente/ C’è una luce là in fondo/ Ma sei già mezzo morto”.

 

La title track ci riporta a panorami più acustici, con gli arpeggi piovosi della chitarra ad incontrare un’elettronica lagunare. Afflato paesologico che torna perfettamente anche nel testo, da: “Qui c’è quel che c’è/ Se cade una foglia è già qualcosa/ La nebbia si posa e copre ogni cosa/ La notte ci ingoia/ Il mondo ci ignora” a “Lontani dal centro/ Lontani da tutto/ Qui insieme/ Libero tutto me stesso/ Solo paure primordiali/ Qui”.

“Luci spente” torna a farsi attraversare da una sezione ritmica martellante, fulminata dalle incursioni acide dei synth, ad inchiodare versi sanguinanti come: “Come ci assomigliano le stelle/ Galassie di anime gemelle/ Ma le mie luci sono spente/ Non si vede niente”.

A seguire, “Ministro del temporale” gioca ancora su tinte elettroacustiche, con una batteria straniante a fare da sfondo alle sferragliate delle chitarre elettriche ed alle nuvolaglie elettroniche che si raddensano sul pezzo. Splendida, nella sua disillusione, anche la parte letteraria: “È buio e non c’è luce manco in lontananza/ Mi affido a chi vede al meglio la speranza/ Anche se illusione e non sostanza/ Ma serve a sopportare meglio l’impotenza/ A digerire meglio la violenza/ Non c’è luce in lontananza/ Nella notte della gelida sentenza/ Sono vittima della mia incoscienza”.

“Via Domiziana” cammina, con le solite movenze a metà fra il disturbante e l’assolato, lungo le trame tessute dalla viola braguesa, su cui si abbatte un pattern ritmico nerofumo, squarciato a sua volta dalla voce di Annapia Gallo. Centratissima, all’interno di questo gioco di chiaroscuri, l’alternanza fra napoletano ed italiano: “Pe chi nun tene nient a fa/ Na foto na finestra da guardà/ Pe spera/ Spartuti spezzati senza nierv/ Simm stracci ca schifano a terra/ Picchia se serve/ Non devi pensare/ Ne vale la pena/ Non puoi rifiutare/ Se la strada è asciutta o bagnata / Devi continuare pure se è allagata”.

 

A chiudere il disco ci pensa “Via Ferrarese (Amico mio)”, segnata da una cassa dritta che finisce per esplodere in un fuoco d’artificio di chitarre ed elettronica, ad accompagnare i fulmini buoni di: “Questa sera non c’è scusa/ Non possiamo stare fermi/ Prendiamo tutto amico mio/ Non finisce questo viaggio/ La luna o qualcos’altro ci protegge”.

In conclusione, ne viene fuori un lavoro in cui la tensione poetica resta in perfetto equilibrio, quasi sospesa, sulle geografie disegnate dagli arrangiamenti. Giovanni Facelli, Federica Addari, Valentina Francini e Francesco Seitone ci regalano un piccolo scrigno di storie di provincia, a cavallo fra piccole morti e vie di fuga. Praticamente, una raccolta di racconti formato disco.