“…ogni scatto è un piccolo frammento di tempo strappato al presente e al passato e condotto nel futuro, dove vivrà per sempre” (M. Pellegrino).
Io alla luce ci credo. Eppure la luce ci inganna quando alle pieghe di tutte le cose affida bordi e forme che non potevamo pensare. E se un poco ti volti, la luce che cambia fa cambiare le cose. E non è menzogna, se ci pensi bene. Ognuna di queste forme nuove che arrivano agli occhi è un equilibrio che la vita ci mostra. Come la musica, che se la senti un giorno ti suona bene e magari poi il giorno seguente suona che sputi per terra prima di tornare viva nel sangue. Le cose sono ferme. La luce le muove. Come la vita in fondo.
Io l’ho conosciuta Mary Pellegrino, quando le rubavo del tempo e la sua voce nella mia piccola radio portava le pillole culturali di Loudd. E io l’ho capito subito quanto silenzio metteva lei tra le parole; perchè anche le parole, come alla luce le cose, vanno guardate e misurate e poi scelte con la giusta contemplazione, anche quando lento ti bevi una birra o come quando svelto dai ragione alla fretta. E queste fotografie, queste sue fotografie, a tutto questo ci somigliano tanto: sono parole che hanno il silenzio dentro, sono la luce che come le guardi, immobili come sono, cambiano forma e ogni volta, vi giuro ogni volta, raccontano storie diverse. Le parole come le cose.
Queste fotografie sono come i dischi che ho in casa: qualcuno prende la polvere, qualcuno gira mentre sto scrivendo di getto, qualcuno gira da solo senza saperlo e lo fa immobile dentro i sogni che faccio. E non ci riesco a sfogliare le pagine di questo libro come si sfogliano quelle di un catalogo di cose belle da avere in salotto. Mi sono fermato e ho girato lo sguardo, le ho voltate di schiena come si fa con i pazzi: da un lato sembravano tanto e dall’altro parevano quanto. La luce cambiava, loro ferme cambiavano, il tempo, le ombre, la vita di dentro, il silenzio di casa e anche il frastuono di una mattina di sole. Le mani, le cose, il legno e la frutta, ancora le cose, un bicchiere, il metallo nuovo della finestra che rompe l’antico e da ragione al futuro.
Psicografici Editori, per la collana “Istanti”, da luce e ombre a questo libro e incide in cima a tutto un titolo che non sembra caduto per caso: Balance of Light and Dark – Food Art and Photography. È un equilibrio, che poi tutti noi siamo equilibri. E poi alla fine si scivola sempre ma mai si resta in moto per sempre. Da qualche parte l’equilibrio ritorna. Come fa la luce o la non-luce, come fa il buio, come fanno le ombre. Benedette le ombre.
Mary Pellegrino alle ombre ha chiesto davvero tanto, per restituirci la sua personalissima forma di tutte le cose. L’ha vestita la vita, l’ha messa in posa e poi ha chiesto alle ombre di raccontarci qualcosa. Che ognuno ci legga il suo dentro questo piccolo romanzo. Le parole sono fotografie. E se così lo sfogliate, vi giuro che questo romanzo mai avrà fine.
“Perché è questo che fa l’ombra: veste” (M. Pellegrino).
Il tempo dentro questo libro ha un ruolo oserei dire devastante. Il cibo è continuità, la fotografia è “morte”, è stati, è l’eternità che scaturisce dal congelamento. Un ossimoro quasi aver messo accanto cibo e fotografia. Come la vedi?
In fotografia “il tempo” gioca sempre un ruolo fondamentale, sia sotto l’aspetto tecnico che emotivo, e un fotografo deve riuscire a gestirlo al meglio, in tutte le situazioni. Per dire, mentre nelle street photography l’approccio è molto più istintivo: hai poco tempo per pensare, inquadrare e scattare, perché il soggetto è in movimento e pertanto, per riuscire a cogliere l’attimo devi essere “pronto” e veloce, quando si parla di food photography o still life photohraphy, le cose cambiano radicalmente, perché davanti all’obiettivo c’è un soggetto immobile. Così, ci si avvicina a questo tipo di scatto in modo più pensato, ragionato e “costruito”, e questo consente al lato creativo del fotografo di prendersi tutto il tempo necessario per trasformare l’idea che aveva in mente in un’immagine reale, che possa parlare e comunicare quella stessa idea attraverso un linguaggio visivo, comprensibile a tutti, pur in assenza di parole.
Così, attraverso le mie foto, cerco di raccontare storie che vadano oltre il singolo istante e che possano condurre chi guarda in una sorta di mondo parallelo, dove il tempo sembra prendere un ritmo tutto suo, un tempo dilatato, lento, che accoglie e trattiene. Cosa che accade anche nelle arti pittoriche. Pensa alla rappresentazione della natura morta (still life in fotografia), ad esempio. Pittura e fotografia, da questo punto di vista, sono molto simili, perché attraverso metodiche totalmente differenti, raggiungono un risultato analogo. Il cibo viene utilizzato da sempre come soggetto nell’arte, d’altro canto, è fondamentale per la nostra sopravvivenza, è uno dei piaceri della vita e, oltre a questo, possiede una sua sensualità intrinseca.
Per come la vedo io, tutte le fotografie sono un ossimoro, a prescindere dal soggetto. Tutte le foto sono la rappresentazione di un frammento di vita - intesa nella sua accezione più ampia, come un susseguirsi costante di eventi - che viene “cristallizzato” e salvato per sempre dall’oblio, dalla “morte”. Per questo motivo, a mio avviso, la fotografia è l’opposto della “morte”. I ricordi mantengono in vita il passato. Una fotografia non è un ricordo?
E a un fotografo non posso che chiedere: che rapporto hai col tempo, cioè come riesci, se si può riuscire, a fotografarlo?
Quello scandito da ore, minuti e secondi è soprattutto un tempo “convenzionale”, necessario per disciplinare il nostro quotidiano e darci delle regole. Però, se vogliamo spostarci su un piano più “metafisico”, mi sento di affermare che non esiste un tempo solo, “oggettivo”, ma ce ne sono moltissimi e hanno a che fare con quella che è la nostra percezione della realtà circostante, con la nostra “coscienza”. Non capita anche a te di avere la sensazione che a volte scorra in modi differenti? Certe volte sembra passare lentamente e altre, invece, sembra prendere la rincorsa. Ma dipende da lui o da noi? Certe volte mi chiedo se il tempo esista davvero o se non sia solo un’illusione. Non lo si può fermare, non lo si può toccare, è sempre in divenire. L’unica certezza che abbiamo è il presente e anche quello, un istante dopo, è già passato.
Detto questo, penso di avere un buon rapporto con il tempo, non mi fa paura. Riesco a fotografarlo con un click. Scherzi a parte, non penso che si possa fotografate tutto il tempo che ci scorre accanto. Si possono scegliere alcuni istanti. Quelli che ci catturano, quelli che ci parlano, quelli che esteticamente ci incantano. Perché la fotografia è anche estetica. O soprattutto estetica. Anche il tempo, a modo suo, lo è. Perché il tempo è come un treno che corre verso l’infinito, stazione dopo stazione, e il fotografo, può scegliere quelle in cui fermarsi. Ogni stazione, ogni scatto, è un piccolo frammento di tempo strappato al presente e al passato e condotto nel futuro, dove vivrà per sempre.
Sai che ho provato un fastidio estetico nel vedere in rarissimi casi alcune foto in cui l’antichità del cibo avesse a corredo elementi moderni di arredo? Un cazzotto violentissimo. Ad esempio c’è una foto che nella sua antichità ha alle spalle il telaio moderno di una finestra. Ma non penso che sia un caso raccolto per caso, o sbaglio?
Una foto può anche fare questo effetto, disorientare chi guarda. Può accadere intenzionalmente, perché è il fotografo stesso a mettere insieme elementi dissonanti o estranianti, o può capitare perché, com’è giusto che sia, entra in gioco il senso estetico dello spettatore. Io, personalmente, amo i contrasti: quelli estetici, di gusto, di stile e via dicendo e, a dirtela tutta, cerco sempre di inserire nei miei scatti un richiamo al presente, alla “modernità”. Sono indubbiamente scelte stilistiche, certo, ma vedi, credo che in ogni scatto ci siano anche profonde implicazioni psicologiche. Nel mio caso, per esempio, c’è un vero e proprio bisogno di rimanere ancorata al presente, hic et nunc. Pertanto, cerco sempre il modo di mitigare quel senso di “antichità” contestualizzando il tutto, perché se no, provo fastidio a livello fisico.
E questo cibo che si dispone su tavolacci di legno, dentro i piatti o nelle tazze, hai diretto anche la sua estetica o hai lasciato che si disponesse a caso? E se il cibo è vita, allora questa domanda porta con sé un significato ben oltre l’estetica del risultato.
Mi piacerebbe dirti che il cibo si è disposto lì da solo, ma no, non è affatto così. Su quei tavolacci di legno non c’è solo cibo, ma tanto studio, ricerca e lavoro. Realizzare una buona foto di food è molto complesso. Il risultato finale è la somma di moltissime fasi. Se poi, come me, rispetti il cibo, proprio perché è vita, e cerchi di non sprecare nemmeno una foglia di basilico, perché non puoi fare a meno di pensare che al mondo ci sono tantissimi disperati che muoiono di fame, beh, le cose si complicano ancora di più. In quanto nelle mie foto non c’è finzione. Tutto ciò che vedi è reale, commestibile. Fotografo alimenti che poi finiscono nel mio stomaco, e ti garantisco che rendere bello il cibo vero, e mantenerlo bello per tutta la durata di una sessione fotografica, senza ricorrete ad artifici di alcuna natura, non è semplice. Tra l’altro, le stoviglie che lo accolgono, non sono oggetti di scena, ma sono quelle che utilizzo io, nel quotidiano. Anche fuori dal set. Quindi sì, dietro ogni scatto, a prescindere dall’estetica, ci sono anche scelte etiche rilevanti e, naturalmente, psicologiche.
E se il cibo è vita, la fotografia dunque cos’è?
È un mezzo attraverso cui rappresentare la vita. È una sorta di estensione della realtà o una sua mistificazione, o è la proiezione di una fantasia. Tutto dipende da quella che è l’intenzione del fotografo,
A un tratto del viaggio arriva il corpo a interagire con il cibo: le mani che lo prendono, lo mostrano, lo cucinano, lo versano. Il gesto, il contatto, la posizione: credo sia un momento quasi sacrale del viaggio. Che significato ha avuto per te e perché l’hai voluta sottolineare, questa vicinanza?
Trovo che la presenza umana renda immagini di questo tipo ancora più evocative. Mani che toccano, accarezzano, versano o compiono gesti, rendono ancora più vivo e reale il racconto che si cela dietro una foto. Creano una connessione ancora più profonda con chi guarda. La narrazione raggiunge un livello più intimo e mi piace molto, perché trovo scatti di questo tipo particolarmente caldi e accoglienti.
Ed è inevitabile rivolgere le attenzioni alle ombre come ai punti luce, come anche ai colori sempre scuri. Come se in questa vita ci fosse sempre del male a cui riferirsi, come anche se alla bontà comunque sia necessario associare la quiete di una tempesta interiore, di un pensare in silenzio ai dettagli. Perché questa precisa scelta stilistica di colori? Perché rispondere alla vita con il silenzio di qualche ombra?
La mia è soprattutto una scelta di carattere estetico, di gusto personale, di attitudine, perché sono attratta dall’ombra, la trovo suggestiva, misteriosa e sensuale. L’associo alla quiete, alla riflessività e all’introspezione. Mi riporta ai pomeriggi d’estate di quando ero bambina, con mia nonna Maria che aveva l’abitudine di chiudere le persiane per tenere gli ambienti un po’ più freschi. Il silenzio fa parte della vita. Ci sono alcuni silenzi vivissimi, che parlano più di mille parole. Nell’ombra mi oriento meglio, mi sento a mio agio. Il bianco e la luce mi accecano e mi impediscono di vedere davvero. E non sto parlando solo della fotografia, ma del quotidiano. Adoro la luce tenue del pomeriggio e preferisco di gran lunga il momento del tramonto a quello dell’alba. Preferisco la luce morbida, che si posa con delicatezza sul soggetto e lo accarezza, senza lasciarlo completamente nudo. Perché è questo che fa l’ombra: veste.
Inoltre, non associo il bianco e la luce al bene, e il nero e le ombre al male. Il bene e il male in senso assoluto non esistono, ed espressioni del tipo “il nero delle tenebre”, sono solo associazioni di pensiero che ci portiamo dietro per retaggio culturale o per formazione culturale. Basti pensare alla Divina Commedia di Dante, dove il bianco è il colore del Paradiso e il nero quello dell’Inferno. Poi, è inevitabile che attraverso la mia scelta stilistica e le mie fotografie affiorino anche lati della mia personalità e del mio vissuto. Sono fatta di contrasti, lo riconosco. Con gli anni, per dire, ho capito che in me convivono sia un lato solare che uno crepuscolare, e che hanno entrambi lo stesso peso.
E poi il silenzio: perché queste fotografie stanno immortalando dei silenzi. Ci hai fatto caso? Io tanto. Se oltrepassassi la macchinetta vivrei quella stessa scena proprio con silenzio, è quella scena stessa ad avere con sé del silenzio. Non c’erano suoni vero? Anche la luce che ha con sé ogni fotografia è una luce ricca di silenzio e anche tu sei una donna che tanto celebra il silenzio delle piccole cose, o forse mi sbaglio?
Ti confermo che quando scatto ho bisogno di assoluto silenzio e anzi, se sono completamente sola, tanto meglio. Mi serve concentrazione. Ho bisogno di ascoltarmi perché c’è un processo creativo in atto e non posso permettermi distrazioni. Anzi, l’ispirazione è fondamentale. Se mi manca, non ci provo nemmeno, ci rinuncio a priori. Perché non riesco a vivere la fotografia come un qualcosa di meccanico. Devo essere emotivamente connessa, non solo con me stessa, ma anche con il soggetto che mi sta davanti. Devo sentire sempre le emozioni vive e vibranti e questo, in alcuni casi, può essere un limite. Soprattutto se hai una scadenza ben definita per consegnare un lavoro.
Quanto a me amo il silenzio, la quiete e quel senso di sospensione quasi estraniante che evoca, soprattutto la mattina presto. Quando tutto il mondo tace ancora e gli unici suoni sono quelli della caffettiera che borbotta sul fuoco e il cinguettio degli uccellini. Per me le piccole cose, i singoli dettagli, sono determinanti, in tutto. Anche nei rapporti umani. Come si dice? Sono i dettagli a fare la differenza, ed è assolutamente vero.
Chiudiamo, promesso: hai mai fatto caso che il cibo quasi sempre ha forme circolari? Io ci sto facendo caso ora, sfogliando le tue fotografie. Solo quando interviene l’uomo la geometria sfoggia angoli retti e bordi precisi. Vorrà pur dire qualcosa… Che ne pensi?
Sì, ci ho fatto caso, e anzi, ti dirò che è voluto. Come dicevo poco più su, nella food photography e nella still life photography nulla è lasciato al caso e anzi, nella composizione e nell’allestimento di una scena, ci sono regole ben precise da rispettare e ogni elemento deve essere collocato correttamente, affinché lo scatto risulti gradevole ed efficace per l’occhio umano. Non voglio entrare troppo nel merito, perché rischierei di annoiare chi ci legge, ma il lato creativo e quello istintivo, che sono due elementi fondamentali, devono essere supportati da una buona padronanza dello strumento, e mi riferisco alla macchina fotografica, oltre che da una buona gestione della luce e da tanto studio. In ogni caso, la disposizione degli elementi e la loro “circolarità” hanno a che fare con la regola dei terzi e con la sezione aurea (la conchiglia del Nautilus è la rappresentazione perfetta della forma della sezione aurea). Quando poi nella scena appare l’uomo, è importante che le linee siano “diritte”, per una questione di armonia e proporzione. Tutto questo per dire che davanti e dietro a ogni singolo scatto si cela un lavoro immenso, che poi continua anche dopo, con la fase dello sviluppo, fino a raggiungere il risultato finale. Ecco perché mi intristisce molto sentire che, ancora oggi, c’è chi tende a relegare la fotografia a una forma d’arte inferiore rispetto alle altre. La fotografia richiede tanto studio, sacrificio e dedizione.