È l’ultimo della nutrita famiglia Marillion ad arrivare sul traguardo del disco solista. Si tratta di Mark Kelly, anche se, tipico del suo modo di essere e di fare – sempre un po’ defilato nonostante la sua importanza nell’economia sonora – ha deciso di nascondersi, parzialmente, dietro al nome collettivo di (Mark Kelly’s) Marathon. Non che non ci avesse provato in precedenza, ma fermo restando i Marillion la sua massima priorità, ogni tentativo era rimasto finora incompiuto: soprattutto per merito della onestà del personaggio che aveva considerato quanto messo in cantiere poco soddisfacente.
Ancora nel precedente millennio Kelly provò a mettere in musica l’Inferno di Dante; poi nel 2012 un’altra falsa partenza insieme al bassista Steve Lawson, al batterista Roy Dodds (ex Fairground Attention), e all’amico Guy Vickers autore di testi; entrambe gettate nel cestino. Al terzo tentativo la macchina si è messa in moto e ha cominciato a viaggiare fino a prendere velocità e giungere alla meta senza intoppi.
Partendo da appunti che provengono dagli archivi della casa madre – “nei Marillion facciamo molte prove e ci sono mille idee che non sono mai state utilizzate (…) molte che sono certo che i Marillion non utilizzeranno” – sono nate Amelia e Twenty Fifty One, i brani più cospicui che determinano e confinano il disco. Come si addice allo stile Marillion, e in conformità a quanto ammesso, sorta di racconti lunghi (o romanzi brevi) suddivisi in tre parti il primo, in quattro l’altro. Dove più che alla esuberanza tecnico/strumentale tipica del Prog rock si guarda soprattutto alla qualità delle melodie, alla congruenza di uno spartito che funziona piuttosto che ai solo che pure non mancano, soprattutto di chitarra, su tutti quello di Steve Rothery per Puppets, unico invitato del cenacolo Marillion, come spiegato da Kelly per i risaputi problemi relativi alla pandemia (altrimenti avrebbe chiesto aiuto ad altri compagni).
Dal canto suo il tastierista firma un momento divistico proprio sul finale di Amelia, con un solo di synth che sembra uscire pari da The Six Wives Of Henry VIII dell’imperituro sovrano di questo genere di show personali, che non c’è neppure bisogno di citare.
Per chiudere il cerchio e restare fedele non solo ai Marillion post-Fish ma anche al tempo dei vinili della durata di non più di 45’ per sua stessa ammissione, Kelly intendeva racimolare canzoni. Ne ha scritte tre: When I Tell, ballad macchiata di blues dal curioso sapore – soprattutto per effetto della voce del camaleontico Oliver M. Smith – del catalogo di Justin Currie ex-leader dei Del Amitri che si trovano al polo opposto – ma si sa che le vie della musica sono infinite come quelle della provvidenza –; la caramella pop This Time che si scioglie in tre minuti, e la già citata Puppets un po’ Genesis, un po’ Marillion, un po’ Marathon.
Quando si dice la fortuna: Oliver M. Smith è diventato il cantante dei Marathon grazie a una intervista nella quale Kelly affermava che stava cercando una voce simile a Peter Gabriel, che letta da un amico gli suggeriva appunto il cantante che ha superato l’audizione (avvenuta per scambio di registrazioni come si conviene, ma soprattutto conviene economicamente, in questa era Covid e anche no: ma tutto il disco è stato messo insieme con file consegnanti per via elettronica).
A completare i Marathon fondati nel 2019 ci pensano i chitarristi Pete Wood e John Cordy, il batterista Henry Rogers e il bassista ed ennesima chitarra Conal Kelly nipote di Mark.
Pensato, ripensato, abbozzato e aborrito, finalmente concluso partendo da zero o da abbozzi pre-esistenti, il disco di esordio dei Mark Kelly’s Marathon trova posto nel capiente caveau stipato di esempi di quel Prog rock che offre sorpresa alcuna ma d’altro canto non lascia indifferenti: comunque vi approcciate, mal che vada tra le sue note troverete momenti di soddisfazione, a tratti persino modo di gioire.