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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
18/01/2019
Burning Spear
Marcus Garvey
“Marcus Garvey” è un album ispirato, civilizzato, nero, orgoglioso e magnificamente bello.

Winston Rodney, in arte Burning Spear, nasce a Saint Ann’s Bay (Giamaica) nel 1945.  Il luogo di nascita rappresenta il fulcro della formazione spirituale ed artistica del cantante giamaicano, nativi di Saint Ann sono infatti anche Bob Marley e Marcus Garvey.  La presenza di quest’ultimo è centrale e onnipresente nel lavoro discografico di Burning Spear. L’album ‘Marcus Garvey’, pubblicato dalla Island Records nel 1975 e registrato al Randy's Studio di Kingston con la resident band Black Disciples, è uno dei dischi fondamentali per chi ama questo genere, cruciale per il reggae giamaicano ed internazionale.  Burning Spear è senza dubbio un artista da approfondire per chi ha limitato i propri ascolti a Bob Marley. 

I 34 minuti che compongono ‘Marcus Garvey” scorrono veloci, intensi, arricchiti da superbi arrangiamenti roots-reggae, tanto da ottenere il più sentito dei pull up (termine giamaicano con il quale si indica al dj o selecta di rimettere il brano da capo).  

La title-track, “Slavery Days” e “Invasion”, che aprono l’album, sono dei veri e propri manifesti in cui il cuore delle tematiche di Spear vengono sviscerate in maniera diretta e decisa. Le parole del profeta di Saint Ann sono la linea rossa sulla quale viaggiano le tre tracce di apertura. I giorni della schiavitù possono essere rievocati nelle canzoni e chi è sopravvissuto a tali scempi ora può scrivere di essere ancora vivo e pronto a combattere per i propri diritti. È tempo di riappropriarsi della propria cultura, di guardare all’Africa come alla terra madre verso cui far ritorno, concetto fondamentale nelle profezie di Marcus Garvey.

“Live Good” e “Give Me”, adagiate su ritmi e melodie proprie della più classica tradizione reggae, sono inni alla corretta via per vivere la cultura rasta in maniera libera e cosciente.  Il sublime flauto, presente in “Give Me”, si avvolge intorno alla melodia, cosi come la chitarra solida di Earl Chinna Smith, restituendoci musicalmente un Eden musicale; liricamente, invece, un dardo lanciato nei confronti di Babylon.  “Old Marcus Garvey, “Traidition”, “Jordan River” e “Red Gold and Green” richiamano la cultura millenaria sulle quali si basano i concetti fondamentali della cultura rasta e pongono un forte accento militante e tribale all’opera del singer giamaicano. Il tutto è alleggerito dall’atmosfera umana delle melodie, un fiume fertile, ma allo stesso tempo irruento, che scorre nell’anima dell’ascoltatore.

L’album si chiude con “Resting Place”, la traccia che idealmente conclude il percorso di sofferenza e lotta tracciato dall’artista giamaicano, il giaciglio dove poter riposare sotto l’ombra di un albero, lontano dall’inquinamento e le ingiustizie del mondo moderno. Un concetto che suona più attuale che mai, alla luce degli sviluppi della società moderna.

Con il suo terzo album, Burning Spear pone la pietra miliare che supporta il suo intenso lavoro artistico. La sua bellezza è arricchita dalla presenza nella band di musicisti di livello come Robbie Shakespeare, Aston Barret e Leroy Wallace, che consegnano all’ascoltatore un lavoro musicale corposo, una delle più alte vette della produzione reggae di quel periodo. 

“Marcus Garvey” è intriso di temi che potrebbero apparire distanti da chi non conosce a fondo la cultura caraibica, ma la forza di quest’album è quella di restituirci uno sguardo profondo e attento sulla situazione sociale in Giamaica e non solo degli anni ’70, una visione lucida nei valori e nelle motivazioni che hanno portato Burning Spear a creare questo capolavoro, tanto da diventare un ‘must  have’ per gli ascoltatori reggae di tutto il mondo.