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Manuale minimo del rock progressivo: una panoramica quasi definitiva
Stefano Orlando Puracchio
2018  (Demian Edizioni)
CARTA CANTA
all THE BOOKSTORE
25/06/2018
Stefano Orlando Puracchio
Manuale minimo del rock progressivo: una panoramica quasi definitiva
Sì, in effetti come titolo è presuntuoso anche solo dando un’occhiata a quanta letteratura è stata spesa a riguardo. Di certo questo libro di Stefano Orlando Puracchio non punta e non ha la presunzione di restituire parti mancanti al dipinto eterno del Rock Progressivo.

Sì, in effetti come titolo è presuntuoso anche solo dando un’occhiata a quanta letteratura è stata spesa a riguardo. Di certo questo libro di Stefano Orlando Puracchio non punta e non ha la presunzione di restituire parti mancanti al dipinto eterno del Rock Progressivo. Ma una cosa di meravigliosamente ineluttabile l’ha fin dentro il DNA di ogni singola pagina: è una lettura che fortifica e rende indistruttibili le basi, spingendosi oltre, andando a catturare il neofita con gusto e dinamiche interessanti, e affascinando l’esperto che ormai nel prog viaggia ad occhi chiusi. Una lettura che inizia ponendo le basi del viaggio e che amplifica con una scrittura leggera e decisa i particolari che hanno reso POPolare un genere che oggi è di nicchia purissima. E poi a finire compendi e punti di vista di grandi autori e giornalisti su tematiche che al prog non sono soltanto portanti ma divengono addirittura salvifiche per il tempo di oggi quando questo genere di musica è praticamente sparito dalle abitudini quotidiane.

Ma è il centro di questo romanzo il vero nucleo che pulsa e che fa di questo libro un grande manuale di prog da avere. Una band, un disco, una relazione ben narrata. Dunque, proprio così, il racconto del prog esaminandolo disco per disco, sfogliando le opere più importanti, andando a sfamare la curiosità di cose poco conosciute mescolandole ai capolavori che hanno fatto la storia. Personalmente ho deciso di digerire questa parte di volta in volta, tirando giù dagli scaffali un vinile per volta e andandolo a ricreare tra le pagine di Puracchio. Anche per questo motivo e nel massimo della trasparenza, ho voluto lasciare la mia stupida gaffe nell’intervista che segue: non ero ancora arrivato a scoprire che questo manuale parlasse anche di “Aria” di Alan Sorrenti (ovviamente come poteva evitare, direste voi, che poi è la stessa cosa che ho pensato subito). Beh, devo averlo saltato quando ne ho fatto ricerca, devo averlo perduto, devo aver veduto altrove in quel preciso istante. Mi sono ripromesso che proprio oggi mi dedicherò di nuovo a questo vinile, ora che ne ho una saggia fotografia. E quante altre opere ci sono in questo “Manuale Minimo del Rock Progressivo”.

 

La prima grande curiosità è questa: cos’è per te il Rock Progressivo? Un modo come un altro per restare ancorati al passato, alla nostalgia, alla propria storia e a quel certo modo di vivere la musica, o forse è semplicemente una salvezza dal conformismo di oggi?

Sai, è difficile trovare una definizione univoca di Rock Progressivo. Dopo aver intervistato tanti protagonisti di quella magnifica stagione, mi sono reso conto che ogni musicista vede (o meglio, sente) la musica in base alle esperienze, alle passioni e alle aspettative che lo hanno segnato (nel bene e nel male) nel corso della vita. Queste esperienze possono essere simili ma mai uguali. Ecco perché è difficile riuscire a dare una definizione di Prog e perché siamo destinati a continuare la ricerca. Tuttavia, non voglio evitare la domanda. Nel Prog c'è un lato razionale - dato dal rigore, dalle regole - e un lato passionale. Perché la musica è sempre emozione e deve trasmettere sentimenti. Una delle critiche più ingiuste fatte al progressivo è che sia una musica totalmente cerebrale, fredda, senza alcun genere di calore umano. Questo è impossibile. La musica è fatta, ascoltata e raccontata da delle persone. Musicisti, ascoltatori e critici per fare, ascoltare e scrivere di Prog, vuoi o non vuoi, mettono in campo i sentimenti. Quindi una cosa che ha a che fare coi sentimenti non può essere fredda. Una salvezza? Sì, una possibile salvezza. Se non dal conformismo di oggi, dal pensiero unico.

Oggi assistiamo all’omologazione del pop. Le formule commerciali che vincono poi vengono replicate dagli “artisti” a seguire. In un certo senso sono dinamiche sempre esistite. In fondo possiamo dire che il prog ha fatto questo o sbaglio? Da quel disco epocale che è “In the court of the Crimson King” in poi si è verificato più o meno lo stesso processo o è necessario segnalare qualche opportuna differenza?

Come mi ha detto David Jackson (VDGG, Osanna) - il Prog classico, a suo tempo, è stato un genere POPolare. Tutta la musica, con un certo seguito, è stata, è e sarà sempre definita Pop, musica popolare. Omologazione? Sono cambiati i tempi, i metodi di fruizione, i metodi d'acquisto. È una riflessione che richiederebbe più tempo e spazio. Su "In the court of the Crimson King". È vero che, in maniera convenzionale, facciamo partire con i King Crimson quella stagione che chiamiamo Prog. Ma non è esatto affermare che le altre realtà si siano ispirate a loro o solo a loro. Ci sono elementi simili, certo, ma ogni band è comunque diversa dalle altre. Differenti line-up (e già questo basterebbe), differenti esperienze personali, differenti strumenti...

Dopo aver fatto storia e dato importanti riferimenti ti avventuri a raccontarci nello specifico i dischi che hanno segnato l’epoca e il genere. Come li hai scelti? Qualche grande escluso? Ci sono grandi assenti che invece mi sarei aspettato e che avrei voluto assolutamente leggere come “Aria” di Sorrenti...

Infatti, “Aria”, a ragione, c'è. Però condivido il tuo punto di vista. E ti dirò: mi piange il cuore pensando a quanto ho dovuto escludere dal Manuale. È stata una scelta sofferta ma necessaria. Per due ragioni. Prima di tutto perché dovevo differenziarmi dai testi (ottimi, tra l'altro) che erano sul mercato. La seconda ragione è legata alla prima: rincorrere chi già aveva scritto tanto (e bene) non aveva molto senso. Un po' come il discorso della traccia di Fripp. Esempio: uno dei testi più interessanti e completi sul Prog in Italia, si chiama: “Prog 40”. Mi pare sia stato anche aggiornato di recente. È stato scritto da un pool di esperti di tutto rispetto. Un pool, per l'appunto. Da solo (anche se “con un piccolo aiuto dei miei amici”) sono riuscito a fare quello che ho potuto. In soldoni: il massimo c'è già? Allora lavori sul minimo. Sulle dolorose esclusioni, i primi due nomi che mi vengono in mente: “Quella Vecchia Locanda”. Due album veramente interessanti. E i “Buon Vecchio Charlie”. Nel secondo caso, in particolare, avrei avuto la scusa per poter porgere un doveroso riconoscimento a musicisti che meritano di essere ricordati anche dalle generazioni future.

Credo tra l’altro sia l’emblema di come tante opere siano passate inosservate anche e soprattutto dalla critica del tempo. Oggi invece si celebrano in lungo e in largo. Perché secondo te? Perché in fondo (anche se timidamente) sta anche tornando di moda il Prog tanto da rendere vincente una ristampa in vinile distribuita in Edicola?

L'unica spiegazione che mi sono riuscito a dare è che si arriva a un punto in cui la ricerca di qualcosa di più valido diventa una necessità imprescindibile. E vai a cercare qualità dove c'è. Il Prog è musica difficile, certo. Ma è sicuramente musica di qualità. Sono rimasto sorpreso nel vedere in edicola, qualche mese fa, album come: “Contaminazione” del Rovescio della Medaglia. Certo, l'edicola non sarà il luogo più adatto per la vendita dei dischi (che resta sempre il negozio specializzato). Ma se riusciamo ad “acchiappare” anche un solo nuovo ascoltatore con l'esposizione in edicola, il passo successivo è vedere un nuovo cliente entrare nel negozio di dischi.

Eppure, parlando di grandissima diffusione, oggi un genere come questo sarebbe impensabile. Perché secondo te oggi un disco di prog non riesce più a trovare un canale di comunicazione con il pubblico di tutti i giorni?

L'esame di coscienza non deve partire dagli ascoltatori bensì dagli operatori del settore. Non possiamo lamentarci dell'ignoranza se coloro che vogliono abbatterla si chiudono in modo settario. Se la massa non ha le giuste chiavi di lettura per apprezzare il genere la colpa è nostra, non loro. Vuol dire che abbiamo sbagliato qualcosa. L'unico modo per ovviare al problema, secondo me, è divulgare. Cioè abbassare il livello. Certo, c'è il rischio di banalizzare gli argomenti. Tuttavia, è meglio correre il rischio di essere banali. O, ancora peggio, lasciare che qualcun altro, armato di intenzioni non proprio nobili, veicoli l'attenzione verso materiale discutibile.

Un giorno ebbi la fortuna di farmi una chiacchierata con Tony Levin. Anche suo il parere di come un live dei Crimson sia altamente tecnico, un livello di comprensione che può venir codificato solo da chi è padrone di quel certo modo di concepire musica. Per il resto del pubblico, su tutto arriva prima (e quasi esclusivamente) l’estetica di superficie del brano nel suo complesso e non i dettagli di tecniche e di composizione. Dunque, ti chiedo: la critica di quegli anni che si approcciava a questo nuovo genere di musica, secondo te era pronta per accogliere e codificare queste opere? Che poi è l’annosa domanda di sempre, ma penso che per un genere come il Prog sia davvero imperante...

Siamo figli del nostro tempo. Non avendo vissuto in prima persona, per ovvie ragioni anagrafiche, il periodo, i miei punti di riferimento sono diversi da quelli di coloro che operavano in quegli anni. Ma è giusto così. Mi rivolgo a persone che non conoscono il Prog o che non erano ancora nate, come me, quando il Prog classico furoreggiava. Persone che sono immerse in questa contemporaneità abbastanza sconfortante. Se ho commesso un errore, rifacendomi a quanto ho detto prima, è che dovevo abbassare ulteriormente il tiro. Qualcuno griderà allo scandalo: “ancora di più?”. Sì. La sfida più grande resta sempre bilanciare la qualità al raggiungimento dell'obiettivo. È snervante, a volte. Chi non è nel settore della comunicazione non riesce a rendersene conto del tutto. Visto dall'esterno fare lo scrittore è una passeggiata. Si vedono solo i risvolti positivi: il prestigio, rilasciare interviste, le luci. Magari fosse sempre così. Ciononostante, andiamo avanti. 

Una domanda per chiudere: si stava meglio quando si stava peggio? Che paradosso è la vita: oggi che con i computer, i programmi automatici, avremmo tutte le tecnologie comode a portata di click non sappiamo e in fondo neanche ci interessa fare opere di quella complessità, opere che invece vedevano la luce quando una chitarra dovevi suonarla per davvero...

La considerazione che hai fatto è molto simile a una che mi ha detto Gary Green dei Gentle Giant. Penso, poi, al discorso della voce. Celebriamo Sorrenti, Stratos, Di Giacomo. Poi, oggigiorno, ci sono software che possono trasformare un maestro del birignao in un cantante. È una cosa orripilante. Davvero. Pensare che una persona che ha fatto degli studi (da autodidatta, a scuola) venga soppiantato dal primo arrivato non è bello. Comprendo la frustrazione. Tuttavia, è una realtà con cui si deve venire a patti. Lo “studiato” non può essere invidioso del primo arrivato e il primo arrivato non può credersi un “cantante” a 360 gradi. Persino io, grazie a questi software potrei incidere un disco. Il che è tutto dire. Per fortuna mi limito a cantare sotto la doccia o quando mi faccio la barba.