Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
01/08/2017
Future Lives
Mansions
Mansions fa felici coloro che seguono pedissequamente l'americana ed amano il suono rodato delle chitarre acustiche che si sposano alle batterie soffuse ed agli organi che accompagnano silenti l'interpretazione vocale. Per gli altri, un paio di felici intuizioni fanno pensare che nel futuro potranno riservarci belle sorprese.
di Alessandro Raggi

Intorno ai Future Lives aleggia un alone di mistero, relativo soprattutto al numero esatto dei componenti della band, quattordici nelle comunicazioni stampa di presentazione di Mansions, sette nei post su Facebook nell'account ufficiale della band. Messe da parte però le incongruità comunicative, va detto che i Future Lives sono un bel melting pot, con musicisti che provengono da band famose (Drive by truckers) oppure facenti parte del sottobosco indie-folk americano (King of Prussia e Japancake) e che hanno deciso di dare alle stampe un disco che, invece che risentire dei diversi percorsi dei componenti del gruppo, si propone come il tipico prodotto di americana, senza sconfinare in nessun altro genere attiguo. Quello che dunque potrebbe suonare come un controsenso diventa il punto di forza di Mansions che, pur potendo vantare su una line up ipertrofica, si dimostra un album ben focalizzato e, soprattutto, arrangiato in maniera intelligente. Insomma, che siano quattordici o sette (io propendo per la seconda...) in ogni canzone difficilmente riuscirete a cogliere più di quattro/cinque strumenti, con la parte del leone sempre svolta dalla chitarra acustica. Ciò dimostra l'intelligenza dei Future Lives ed una certa esperienza discografica, laddove il risultato avrebbe potuto essere più caotico e dispersivo. L'altro punto di forza è la voce di Brandon Taj Hanick, già singer dei King of Prussia e lieta nota di questo Mansion, il cui timbro ricorda in maniera impressionante Morrissey, tanto che con "Dancing in the stars" sembra di essere catapultati in un disco degli Smiths. Una tendenza, questa, molto in voga nel circuito americana, visto che gli ultimi due dischi di Ryan Adams risentono in maniera prepotente dell'influenza della band inglese. La scrittura non è a livelli eccelsi e, soprattutto, manca il cambio di passo, l'intuizione che potrebbe rendere i brani più particolari. Così se "The knowing" e "Kazakhstan" portano a casa il risultato grazie ad una vena malinconica ed una buona intuizione melodica, lo stesso non si può dire per "Stumble on" o "Continental Drift Divide". Il futuro dei Future Lives (gioco di parole voluto eh!) sta allora in "St. John Fair", felice ed ariosa proposta che in meno di quattro minuti riesce a condensare finto reggae, pop/rock ed americana (ci mancherebbe) e soprattutto a dipanare un po' le nubi che vorrebbero certi dischi legati per forza all'introspezione ed alla tristezza. Insomma, come disco di genere Mansions fa felici coloro che seguono pedissequamente l'americana ed amano il suono rodato delle chitarre acustiche che si sposano alle batterie soffuse ed agli organi che accompagnano silenti l'interpretazione vocale. Per gli altri, un paio di felici intuizioni fanno pensare che nel futuro potranno riservarci belle sorprese. In ogni caso, con John Keane al missaggio (R.E.M., Uncle Tupelo) ed un lavoro di cesello realizzato nella natia Athens, considerata la desolazione delle proposte musicali che circolano in questi anni, vi consiglio di provare.