Il bar dello Zanzara era un bar come qualunque altro; gente che la mattina andava a far colazione, chi comprava un pacchetto di sigarette, chi a bersi un caffè. Poi un giorno lo Zanzara ebbe l’idea di mettersi a fare i cocktail, oddio, a dire la verità un solo tipo di cocktail, quello più semplice da fare. Il Negroni. Ebbe anche l’idea di metterlo ad un prezzo più basso degli altri bar di zona: tre euro e cinquanta. Il risultato fu che il bar si riempì di balordi ubriaconi di ogni età che avevano e hanno il pregio di non lasciare chiodi, e a quel prezzo avrei voluto ben vedere. A poco a poco sempre meno persone andavano a far colazione a caffè e cappuccino, il brandy e la grappa sostituirono il latte nel caffè, i birrini come sostituto dei lieviti delle brioche.
Ma allo Zanzara tutto questo andava bene, anzi, gli va bene ancora, sempre più nullafacenti affollano il bar e lo hanno reso caratteristico nella zona; chi entra sa bene che fauna troverà dentro, così come quelli che non ci entrano per il motivo sopra detto.
Un po’ come approcciarsi all’ascolto di un disco di King Krule, uno che state pur certi farebbe la sua porca figura nel bar dello Zanzara. Sì, perché hai voglia a dire che la recente paternità lo ha cambiato, che ha smesso di bere; beh forse per i primi quattro brani di "Man Alive!"si intuisce che il nostro ha trovato dei barlumi di lucidità quantomeno nella struttura musicale, laddove si rifà a certe formule post punk mutuate dal grande Martin Hannet, e "Cellular" ne è un buon esempio e per il sottoscritto il punto più alto dell’intero disco, al che uno si aspetterebbe di ascoltare i restanti dieci brani sullo stesso tenore, ma già da "Supermarché" cominciano ad affiorare i primi dubbi, ma insomma, pensi che sia un recondito effetto di vecchie dipendenze alcooliche, però tutto sommato è passabile, il successivo "Stoned Again" se ne va per le vie di uno spoken disperato e disperante, sorta di blues scatarroso e da suburra urbana e preludio a "Comet Face" ancora con reminiscenze hannetiane (terribile neologismo, i know) e qui per il sottoscritto si chiudono i giochi.
Da "The Dream" in poi ritornano i fantasmi della dipendenza di Archy Ivan Marshall, messi in forma di frammenti musicali e parole in stile deboscio, che oltre a provocarmi noia e fastidio, hanno seriamente attentato alla salute dei miei scroti facendomi rischiare l’orchite più di una volta.
C’è modo e modo di raccontarsi e raccontare la propria vita dannata, ma qui si va sul cliché da cantante maledetto, con dei quadretti che sanno di svogliatezza, del provocare disgusto in maniera costruita fuori da ogni spontaneismo, come se ci trovassimo di fronte ad una posa ben studiata. I brani sono dei bozzetti che raramente superano i due minuti, che niente mi hanno comunicato, se non la voglia di arrivare alla fine del disco quanto prima.
Posto che questo album sia una cosa davvero spontanea, mi auguro che il signor Marshall possa riprendersi al più presto dalle fobie dei suoi fantasmi, e che riesca a sviluppare in modo meno cialtronesco di questo le intuizioni che avevamo potuto ascoltare nei suoi primi due lavori. Così è uno spreco e sinceramente, non avendo propensione a spacciare alcool come lo Zanzara, vorrei poter ritrovare King Krule in versione un po’ più sobria.