Ci sono album che si accontentano di intrattenere e altri che ambiscono a lasciare un’impronta nel tempo: Mahashmashana, sesto lavoro in studio di Father John Misty, appartiene senza dubbio a questa seconda categoria. Con un intreccio audace di riflessioni sull’inevitabilità della fine, ironia tagliente e orchestrazioni che spaziano tra il sontuoso e l’intimo, Josh Tillman (mente dietro l’alter ego Father John Misty) conferma la sua maestria nel trasformare il banale in sublime.
Capace di sfumare tra il diabolicamente intelligente e il fastidiosamente solipsistico (a seconda della predisposizione dell’ascoltatore), Tillman porta con Mahashmashana – un termine sanscrito che significa “grande terreno di cremazione” – la sua poetica a nuovi vertici. Quello che ne scaturisce è un trattato musicale sull’esistenza e la sua fragilità, intrecciato di sarcasmo affilato e di un’insolita, quasi mistica fiducia nella possibilità di trovare bellezza anche nel caos.
Fin dall’apertura, con la title track di quasi dieci minuti, Tillman ci trascina in un universo che oscilla tra il terreno e il trascendentale. Gli arrangiamenti, che ricordano il George Harrison di All Things Must Pass, evocano un senso di grandiosità spirituale, ma è la penna di Tillman a brillare davvero. «Mahashmashana / Tutto tace / E nella prossima alba universale / Non dovremo fare la danza del cadavere con queste braccia», intona Father John Misty, mentre un assolo di sassofono che sembra uscito da Mind Games di John Lennon avvolge le sue visioni apocalittiche.
Eppure, non c’è nulla di funereo nel tono generale dell’album. La morte, l’inevitabile fine, diventa qui materia per una danza poetica, un dialogo irriverente con l’universo. In brani come “Mental Health”, Tillman scherza sulla cultura della consapevolezza con liriche che colpiscono come pungenti aforismi: «Il motore della civiltà / Caffè e sigaretta / Non ho ancora trovato un modo migliore per ribellarmi». Il tutto su una melodia che pare provenire direttamente da un songbook degli anni Settanta, ma con una consapevolezza Millennial che trasforma ogni nota in una riflessione meta-musicale.
Se i testi rivelano una mente acuta e a tratti spietata, la musica è altrettanto ambiziosa. Tillman e il suo collaboratore Drew Erickson (supervisionati da Jonathan Wilson) tessono arrangiamenti orchestrali che richiamano il cinema di Hollywood della Golden Age e il songwriting cantautorale più sofisticato, da Scott Walker a Harry Nilsson. In brani come “Screamland” emerge però anche una velata componente elettronica, tra chitarre trattate (di Alan Sparhawk del Low) ed esplosioni di synth, tra Phoebe Bridges e i Coldplay più ispirati, ma senza perdere la sottile ironia tipica di Father John Misty. (Quanto vorremmo che Chris Martin scrivesse un pezzo così, invece degli attuali inni ecumenici da randomica playlist di Spotify).
Ogni canzone di Mahashmashana sembra concepita come un capitolo di una narrazione più ampia. È il caso di “I Guess Time Just Makes Fools of Us All” (già apparsa nella recente raccolta Greatish Hits: I Followed My Dreams and My Dreams Said to Crawl) che, con i suoi quasi nove minuti in modalità Bob-Dylan-meets-Disco-music, è sì un monumento al disincanto umano (a un certo punto Tillman si immagina a fine carriera a cantare i suoi più grandi successi a Las Vegas), ma è anche una celebrazione della vita stessa. Il testo, che si immagina dei consigli di carriera dati da un serpente a sonagli («Ehi, posso farti vendere un milione di dischi / Però capisci che la tua immagine potrebbe avere bisogno di una bella sistemata»), svela il paradosso che sta al centro dell’album: una critica spietata dell’umanità che però non può fare a meno di essere profondamente umana.
Forse la chiave per comprendere Mahashmashana sta proprio nell’idea della “morte dell’ego”, un concetto che Tillman ha esplorato apertamente nelle sue interviste più recenti. Il Father John Misty di oggi è in sostanza una sintesi delle sue incarnazioni precedenti: il satirico di Pure Comedy, il tragico romantico di I Love You, Honeybear e il nostalgico visionario di Chloë and the Next 20th Century. In “Being You”, Tillman si confronta con un io frammentato, osservando che «Nella mia memoria c’è uno spettacolo chiamato passato». È una riflessione tanto personale quanto universale, un invito a guardare al proprio vissuto come un’opera d’arte in continua evoluzione. L’album si chiude con “Summer’s Gone”, una meditazione malinconica sull’invecchiamento e l’inevitabilità del cambiamento. «Mangi una pesca / O ti sbucci un ginocchio / E il tempo non mi sfiora», canta Tillman, trovando la trascendenza non nella negazione della fine, ma nella sua accettazione.
Insomma, Mahashmashana non è solo un album; è un vero e proprio viaggio esistenziale mascherato da disco pop-rock orchestrale. Tillman riesce a unire il tragico e il comico, il personale e l’universale, con una grazia che raramente si incontra nella musica contemporanea. Il risultato è un’opera che sembra suonare mentre il mondo affonda, come l’orchestra del Titanic, ma con la consapevolezza che anche nel caos più totale c’è spazio per la bellezza. Forse è proprio questo il messaggio finale di Father John Misty: è vero, la vita è uno scherzo cosmico, ma vale comunque la pena di essere vissuta.