In alcune recensioni è stato tirato in ballo il nome di Jessie Ware ma l’impressione è che l’unica cosa che Pearl Charles e l’artista di Hammersmith (autrice di uno dei dischi più belli e chiacchierati dell’anno passato, by the way) sia una certa inclinazione retromaniaca, per cui si fa sempre più accurata e filologica la ricostruzione sonora di una certa Golden Age del Pop da classifica.
I punti di riferimento della Charles, tuttavia, muovono da ben altre direzioni che non la Disco dei tardi anni ’70 o artisti come Diana Ross e Nile Rogers.
Cresciuta a Los Angeles, la sua formazione è avvenuta secondo i canali tradizionali di esplorazione degli stilemi tipici del songwriting angloamericano: Beatles, Dylan, Cohen, John Prine e Hank Williams, anche se il primo cd da lei comprato è stato un Greatest Hits degli Eagles. Attraverso la madre, grande appassionata di Country, ha poi conosciuto artisti come Patsy Cline, Merle Haggard e Loretta Lynn.
E successivamente, nel momento in cui ha voluto muoversi da sola, è andata a finire sui dischi di ABBA e Fleetwood Mac, due nomi che più di tutti hanno influenzato la sua tipologia di scrittura, andando a sovrapporsi all’ossatura classica del cantautorato americano e del Country Folk.
Aggiungete una passione per le liriche di Robert Hunter e John Perry Barlow, scoperti quando cantava in una cover band dei Grateful Dead (“Non li ho mai amati molto ma poi, dovendo imparare le loro canzoni, mi sono accorta che avevano dei testi bellissimi!”) e avrete un quadro piuttosto preciso dei passi che l’hanno portata fino a qui.
Il suo presente oggi si chiama “Magic Mirror”, arrivato a quasi tre anni di distanza dal precedente “Sleepless Dreamer”, a sua volta seguito di un Ep d’esordio uscito nel 2015 per la Burger Records, un’etichetta californiana specializzata soprattutto in produzioni Garage.
Pearl Charles, che oggi vive a Joshua Tree e dice di ispirarsi, per il suo lavoro, ai paesaggi desertici di quel luogo e ai Trip psichedelici, argomento di cui parla con una cognizione di causa che neanche negli anni ’60, è arrivata con questo disco ad esprimere al meglio la sua personale visione dell’arte. “Magic Mirror” guarda al passato, tributando un omaggio sincero agli artisti che l’hanno portata fin qui ma allo stesso tempo si capisce che questo linguaggio per molti versi datato, rappresenta una chiave per aprire la porta del presente.
Un presente fatto di oscurità che però, come ammette lei stessa, non può esistere senza luce. E difatti le canzoni che compongono questo suo secondo full length sono fatte di entrambe le dimensioni. A partire dal titolo, che muove da possibili implicazioni politiche e da una frase eloquente di George Jones: “Quando sei felice ti godi la musica; quando sei triste, capisci i testi”; una visione esplicitata dall’opener “Only For Tonight”, un’intro che è un tripudio di suoni e colori, un pezzo allegro, pieno di solarità Pop, a dispetto di un testo dove l’io narrante dice che accetterà per una volta l’avventura di una notte, con il tono spensierato del ritornello a mascherare solo parzialmente l’amarezza che si intravede dietro una simile decisione.
Realizzato con una vera band (gli stessi musicisti che l’hanno accompagnata nell’ultimo tour), il disco è effettivamente molto più dinamico del precedente, possiede un deciso feeling live e le numerose parti strumentali sono un gran bel valore aggiunto, danno l’impressione di un gruppo di persone che suona effettivamente insieme, diversamente da una normale produzione copia/incolla in studio come oggigiorno accade spesso in questo genere di musica.
C’è stato anche un deciso passo avanti nel songwriting, con canzoni che sono meglio costruite e funzionano benissimo, sia a livello di melodie che di arrangiamenti.
Ascoltare a titolo di esempio le sonorità Cheesy di “What I Need” o “Slipping Away”, dove le influenze dei Fleetwood Mac appaiono più marcate, oppure il fascino malinconico della title track, ballata piano e voce che molto deve a Father John Misty nella costruzione melodica (oltre alla passione per gli allucinogeni, i due condividono anche i musicisti, visto che “Sleepless Dreamer” si era avvalso dei contributi di membri della sua band), dove l’immagine dello specchio magico è utilizzata come pretesto per un viaggio psichedelico all’interno delle oscillazioni della propria personalità (“Magic mirror, tell me true/I keep tripping into you/Sick and tired of being lost and misconstrued/My eyes are red, my heart is blue”).
Brani come “All The Way” e “Sweet Sunshine Wine” sono invece un po’ più rockeggianti e sempre molto Catchy nei ritornelli, mentre “Take Your Time”, con la chitarra acustica in primo piano, è quella più vicina al Country e ad una scrittura “americana” in senso lato.
È comunque bello notare, nell’arco di tutte queste dieci canzoni, come il groove morbido della sezione ritmica faccia da sostegno al lavoro delle tastiere, a loro volta principale base d’appoggio per una voce forse non originale come timbro ma sicuramente funzionale alla levigatezza delle linee melodiche che esprime.
E poi quella chiusura dal retrogusto amaro che è “As Long As You’re Mine”, una canzone d’amore senza troppi significati nascosti che ha già la personalità di un classico senza tempo.
Potrebbe anche essere vero che non esisterà mai la “musica del futuro”, se non dentro questo eterno rimescolamento dei materiali che la tradizione ha lasciato. Finché la qualità sarà quella espressa da Pearl Charles, tuttavia, non mi preoccuperei più di tanto.