Consentitemi un ricordo personale per introdurre. Quest’estate ho visto Fka Twigs al Primavera Sound: era da poco uscito “Cellophane”, il suo primo singolo dopo quattro anni di silenzio discografico ed era stata programmata una serie di concerti, anche questa la prima dopo tanto tempo, tra Stati Uniti ed Europa, con puntate in alcuni dei festival più importanti.
Bene, erano le tre del mattino e normalmente in quella fascia oraria rimango sveglio se c’è qualche act in grado di pompare adrenalina a mille e far muovere i culi. Che poi lo sa anche la direzione artistica della rassegna spagnola, che nelle fasi più avanzate della notte mette sempre cose parecchio estreme o danzerecce.
Tutto questo per dire che uno spettacolo come quello di Tahliah Debrett Barnett, con la metà delle canzoni in repertorio provenienti da un disco non ancora uscito e sonorità non proprio costruite sulla cassa dritta, non si annunciava come particolarmente atto a mantenere desta l'attenzione del pubblico.
Ora, non so gli altri ma io sono rimasto ipnotizzato per un'ora abbondante. Tale il magnetismo di una performance fatta di danza (pole, spada e quant'altro), coreografie elaborate, costumi stravaganti, un palco costruito su due livelli, freddo ma estremamente funzionale, e soprattutto una prova vocale di livello assoluto.
Cinque mesi e tre singoli dopo, col nuovo album che, con uno stillicidio di anticipazioni, ha preso lentamente forma davanti a noi fino a rivelarsi completamente, possiamo dirlo chiaro e tondo, senza timori di esagerare: Fka Twigs è una delle più grandi artiste musicali del nuovo millennio.
Recentemente intervistata da Rumore, ad una domanda sulla presunta inclassificabilità della sua proposta musicale, la ragazza di Cheltenham ha così risposto: “Capisco che il mio stile venga ritenuto da molti inusuale ma per me è semplicemente musica. Cerco di fare musica per la mia anima, e la mia anima non si fa rinchiudere in un genere.” Direi che se dovessimo trovare delle parole per sintetizzare il contenuto di questo disco, non potremmo trovarne di migliori.
Per una volta credo sia superfluo cercare etichette, pensare riferimenti e tentare di descrivere una proposta musicale che, per quanto ci sforzassimo, resterebbe comunque inafferrabile.
“Magdalene” ha il suono che ha la bellezza autentica, scaturita da un'anima sofferente, che ha usato il suo tormento per ripartire ed elevarsi ad un nuovo grado di maturità ed autocoscienza.
Lo ha raccontato lei stessa più di una volta da aprile, del tumore uterino da cui è guarita, del girare uno spot tv con Spike Jonze appena un mese dopo l'operazione, portando il suo fisico oltre un limite che non pensava di poter superare; l'aver imparato da zero la pole dance per girare il video di “Cellophane” e poi la rottura della storica relazione con Robert Pattinson, che ha ispirato molto del mood di questo lavoro.
È un disco fragile, come Tahliah ha dichiarato. Sarebbe forse più corretto dire che mette a tema la fragilità, la comunica, senza vergognarsene e senza aver paura di apparire debole.
Due temi portanti, che sono anche le due occasioni che lo hanno generato: da una parte la ferita affettiva, con tutta una serie di testi che parlano di relazioni che finiscono, di amori che non mantengono le promesse (“Mirrored Heart” su tutte ma anche l'opener “Thousand Eyes”, oppure “Sad Day”), piuttosto che del desiderio di vivere una relazione stabile, di trovare un uomo che possa davvero sacrificarsi per lei (è il tema di “Holy Terrain”, secondo singolo estratto, splendido contributo di Future e uno degli episodi migliori della tracklist). Dall'altra parte, il dolore fisico, la malattia, la paura della morte e l'esigenza di trovare qualcosa o qualcuno da cui ripartire.
La figura di Maria Maddalena nasce da qui, rielaborata in maniera non esattamente fedele alla tradizione biblica, trasformata in un'icona del femminismo per quanto mi riguarda molto meno affascinante e significativa rispetto a quello che emerge dalla lettura dei vangeli (anche la visita che racconta di aver fatto a Glastonbury, sulle rovine celebri dell'abbazia a cui sono legate diverse leggende piuttosto ardite sul personaggio, dice molto della natura di questa reinterpretazione). Al di là di questo, si tratta di una rilettura che ha prodotto liriche potenti (la title track in particolare), incentrate sul ruolo della donna, padrona di sé e della propria volontà, signora dei propri desideri, piuttosto che oggetto di desiderio e non costretta ad essere vista per forza di cose ridotta dal detto “Dietro ogni grande uomo c’è una grande donna” (espressione che lei ritiene essere parecchio riduttiva).
Si può essere d'accordo o meno con questi contenuti, non credo che il punto stia qui. L'essenziale è riconoscere il valore di un disco pericolosamente vicino alla perfezione, un disco dove le sue potenzialità sono espresse al massimo, dove non c’è nessuna tentazione di rimanere fermi in una comfort zone peraltro già ampiamente di livello, dove la collaborazione con produttori di successo è sfociata in un lavoro di squadra capace di declinare al meglio una scrittura già magnifica di suo.
Per rendersene conto, basta concentrarsi sulla prova vocale, dove vengono toccati picchi prima di allora impensabili (“Cellophane” già l’aveva anticipato ma quello che riesce a fare su “Fallen Alien” è da antologia), una performance da cantante assoluta, giusto per far ricredere coloro (ma esistono ancora?) che la considerano una delle tante reginette del pop da classifica.
Oppure dare una scorsa alla lista dei nomi coinvolti, soffermandosi magari anche solo sui più famosi: Benny Blanco, Nicholas Jaar, Onehotrix Point Never, e constatare come ciascuno di essi sia riuscito a dare la sua esclusiva impronta senza per questo snaturare la spiccata personalità del songwriting di Twigs.
Il quale, è utile dirlo, non si discosta poi molto da quanto già ampiamente sentito su “Lp1” o sui tre Ep pubblicati prima e dopo, ma piuttosto migliora le cose che conoscevamo già e ampia lo spettro sonoro, inserendo suggestioni da musica sacra (“Thousand Eyes”), elementi orchestrali (“Mary Magdalene”), flirt con la Trap (“Holy Terrain”), ballate struggenti dove il lavoro di produzione riempie a meraviglia gli spazi e crea il terreno ideale per il dispiegarsi della sua vocalità (“Cellophane”, “Sad Day”, “Day Bed”).
Dal vivo lo abbiamo già sentito senza conoscerlo e sappiamo che funziona (quindi chissà ora che abbiamo guadagnato familiarità con i brani); ribadiamo quello che si è detto all'inizio: volete sapere che suono ha la contemporaneità? Comprate questo disco. Altre parole direi che è superfluo spenderle.