Fa ridere, perché la moda dell’intitolare canzoni ed album con i nomi dei personaggi famosi o i titoli delle serie Tv l’ho sempre associata ad una certa cultura It Pop che, forse nel tentativo inconscio di liberarsi del complesso di inferiorità nei confronti delle scene più longeve e di cucirsi addosso un’identità ben definita, ha iniziato ad ostentare tutta una serie di riferimenti culturali più o meno plausibili. Per cui appunto, fa ridere vedere ora la stessa tecnica utilizzata dai Non Voglio che Clara, una band che con quel tipo di cultura non ha proprio nulla da spartire.
“Qualcuno un giorno si alzerà con i figli già cresciuti, senza preoccuparsi mai di chi fosse Ian MacKaye, in sella ai motorini coi loro piccoli guai, ma in fondo senza troppi pensieri, simili a com’eravamo noi”.
Ian Mackaye è (mi pare inutile specificarlo, ma non si sa mai) il cantante e chitarrista di Fugazi e Minor Threat, nonché una delle figure musicalmente più influenti della sua generazione. Sembrerà probabilmente strano accostare la scena Hardcore alla musica del quartetto bellunese ma, quando lo intervistati qualche anno fa, Fabio de Min mi confermò la verità su alcune voci che avevo sentito sul suo conto, sul fatto che fosse un fan del Death Metal; ragion per cui non mi sembra così strano un accostamento del genere, oltretutto nel profondo Nord-est dei primi anni ’80, dove i Fugazi apparivano come un riferimento fin troppo sofisticato.
Il sesto disco dei Non Voglio che Clara non è dunque il tanto atteso seguito di Superspleen Vol.1, che aveva interrotto un silenzio di sei anni ma aveva avuto la sfortuna di essere pubblicato subito prima della pandemia, bensì un progetto totalmente nuovo, incentrato su una rievocazione dell’adolescenza che, ci hanno tenuto a precisare, non vuole assolutamente essere nostalgica.
Per la verità non c’è solo il passato, ad essere raccontato in queste nove canzoni: se la title track è una sorta di lettera ad un amore di gioventù, sguardo malinconico sul tempo trascorso ma anche un certo percepito disincanto sulla dimensione presente, “Lucio” è profondamente radicata nel turbamento adolescenziale di chi sa che esiste solo l’istante e che quell’istante va riempito, ci sono anche brani, come “Caffè & ginnastica” e “Pilates”, che paiono riflettere un po’ ironicamente sulla condizione frenetica e disincantata dell’adulto contemporaneo.
Il tutto con una scrittura che come al solito non lesina altezze poetiche e che, pur oggettivata quanto basta, non rinuncia ad immagini più vaghe, che si prestano ad interpretazioni e a letture su più livelli. C’è un certo uso disinvolto delle citazioni musicali (oltre a Ian Mackaye compaiono anche Lucio Battisti, Gino Paoli e Robert Miles) ed un generale muoversi sulle molteplici dimensioni del tempo, nel tentativo, forse, di riappropriarsi di qualcosa che potrebbe anche, in effetti, non essersi mai perduto.
La formazione è la solita dell’ultimo decennio, stabile dai tempi de L’amore finché dura: Fabio de Min (voce, tastiere, Synth), Marcello Batelli (chitarre), Martino Cuman (basso) Igor de Paoli (batteria) appaiono sempre più affiatati, dando vita al solito mix di cantautorato e arrangiamenti in bilico tra Pop sofisticato ed elettronica, che oggi potrà sembrare datato ma che quando cominciò a diffondersi, nei primi anni Duemila, divenne in breve tempo il non plus ultra di quella scena che si poteva legittimamente chiamare Indie.
Lo si era notato col disco precedente, a maggior ragione lo si nota ora: datati quanto si vuole, incomprensibili per le nuove generazioni, ma ancora una volta di un’altra categoria. Senza dover per forza mettere in campo una guerra tra giovani e vecchi, ma tra la scrittura di un de Min ed un nome qualsiasi del panorama It Pop, anche di quelli più celebrati, c’è e ci sarà sempre un abisso incolmabile.
La cosa è forse ancora più evidente con Mackaye, che riprende i soliti stilemi e li utilizza per produrre qualcosa che è sempre uguale a se stesso ma allo stesso tempo sempre fresco e sempre artisticamente rilevante. C’è la stessa atmosfera agrodolce da giorni perduti, la solita scanzonata depressione, ma a questo giro anche una certa qual voglia di giocare col Pop e di infilare ritornelli ammiccanti e memorabili (“L’inventore”, “L’identikit”, “Pilates”), prima di rituffarsi nella sperimentazione e nel gioco di arrangiamenti de “L’ultimo successo”.
Una lezione, quella dei Non Voglio che Clara, che andrebbe imparata a memoria e che, caso assolutamente più unico che raro per un gruppo dalla carriera ventennale, migliora esponenzialmente col passare del tempo: non so voi, ma nonostante l’aura di culto che circonda i primi lavori, io preferisco nettamente gli ultimi.
Il prossimo passo sarà vederli dal vivo, perché dopo la data milanese annullata per Covid mancano dalle mie parti da decisamente da troppo tempo.