La copertina non lascia dubbi. Colapesce e Dimartino che si allontanano dall’installazione della meridiana del Parco Astronomico GAL Hassin di Isnello, nell’entroterra di una di quelle località rivierasche della Sicilia (Cefalù) dove gli inglesi in vacanza pisciano nel mare senza tante remore. Nella foto si vedono i due prendere strade diverse (considera che tutto può finire, così ci hanno ammonito sornioni per tutta l’estate), ma per andare dove, viene da chiedersi. A Singapore? Ce l’hanno insegnato loro che paese che vai, stronzi che trovi. Non si può fare il conto, sono davvero a milioni.
Ecco. Potremmo liquidare il sofisti-pop d’autore di Colapesce e Dimartino (a tratti rock con evidenti ammiccamenti alla più moderna psichedelia) con qualche supposizione complottista, qualche citazione sottile o qualche distratto elogio sulla sua sorprendente orecchiabilità. Un tratto con cui indubbiamente occorre fare i conti se consideriamo l’incommensurabilità degli ascolti dei loro successi sanremesi sulle piattaforme di streaming, i dischi di oro e platino, i premi della critica, per non parlare dell’onnipresenza radiofonica del loro recente tormentone estivo.
Potremmo farlo, ma ci perderemmo un’occasione straordinaria per comprendere a fondo e celebrare, di conseguenza, uno dei progetti più sagaci e dissacranti del nuovo scenario cantautorale italiano. L’unico (gli tiene botta solo Calcutta) in grado di sobbarcarsi con autorevolezza l’onere di far fruttare la rendita (con tanto di interessi) dell’eredità culturale degli ingombranti padri fondatori del genere.
Uno stile rielaborato, al contempo, secondo il cinismo senza speranza e la schiavitù della riduzione di qualunque cosa a meme, vero must dei giovani adulti di questo incontrovertibile decorso storico tutto social. Un modello compositivo riconoscibilissimo grazie a certi timbri ormai marchi di fabbrica dell’indie radicale e colto. Un’estetica musicale che va per la maggiore, di cui si odono gli echi provenire dalle camerette delle generazioni protagoniste del più grande ritiro sociale della storia dell’umanità, dagli appartamenti full-Ikea dagli affitti alle stelle, domicili mantenuti dal lavoro dei genitori di universitari fuori sede e di stagisti freschi di migrazione dal sud sfruttati con il pretesto di ricoprire i ruoli dai nomi più altisonanti negli open space delle filiali locali delle multinazionali dell’industria del virtuale.
Un ascolto attento dell’opera frutto del sodalizio tra i due cantautori siciliani (uno di Siracusa, l’altro di Palermo, due mondi a sé) ci esporrebbe alla profondità della loro poetica, al detto e al non detto dei loro versi, alla familiarità che scopriremmo di avere con le tematiche e le storie raccontate nelle loro canzoni. Per questo è un vero peccato che, a quanto sembra, la partnership tra Colapesce e Dimartino sembra essere giunta ai titoli di coda, la chiusura di una parentesi fruttuosa nelle rispettive carriere ai margini dell’underground nostrano, in quel non-luogo dove si raccolgono consensi da una nicchia squattrinata, schiava degli apericena e mutevole alla sovraesposizione di proposte, un mercato in cui l’offerta supera di gran lunga la domanda.
D’altronde Colapesce e Dimartino sono l’esempio più riuscito di come si favoriscono le economie di scala. Una joint venture, più che un’acquisizione. Tra i due è difficile individuare quale fosse il meno popolare prima del febbraio 2021. In un festival a porte chiuse, uno dei più eclatanti ossimori dell’industria dello spettacolo televisivo, forti di un carisma tutto meridionale, facendo leva sulla formula della coppia di personalità singole a dividersi la scena senza sottrarsela reciprocamente, Colapesce e Dimartino sono riusciti a elevare a potenza due talenti e a sprigionare in onda (e in Eurovisione) un messaggio che ha pienamente colto nel segno. Un progetto curato meticolosamente fino al dettaglio, dal distorsore compattissimo (e trendissimo) dei soli di chitarra, poche note ma sempre quelle giuste, alle parole perfettamente cesellate nei solchi delle canzoni, fino alla dimensione dei colletti delle casacche anni Settanta.
Ora, dopo aver sbancato due volte Sanremo e aver prodotto e interpretato un film (uno spasso, fidatevi), hanno dato alle stampe una vera e propria raccolta di hit. Perché mentre “I mortali” conservava quella componente di repertorio secondario, inevitabile in un disco come quello, data la presenza di pezzi da novanta del calibro di “Musica leggerissima”, “Luna araba”, “Cicale” e "Majorana", in Lux Eterna Beach siamo al cospetto di un upgrade. Dalla prima all’ultima traccia i due non scendono di una tacca in perfezione, un primato in cui si può leggere tra le righe il senso di mollare il colpo proprio adesso, sulla scia dei fasti di un disco così difficile da eguagliare, figuriamoci da superare.
Un tripudio di intelligenza, a tratti estremizzata in adorabile spocchia, in grado di soddisfare tanto i fan di Propaganda Live quanto il popolo di ignavi rapiti dalle rime catchy delle assegnazioni di XFactor. Differenti piani di lettura riconducibili al merito dell’abilità compositiva e all’intuito commerciale di un connubio artistico mai visto, da queste parti.
In quello che, statene certi, verrà incensato ai primi posti delle classifiche dei dischi italiani più belli dell’anno, ci sono intanto un’intro e un’outro da manuale. La prima cantata e dal titolo che, come la luce che sfiora di taglio la spiaggia, mette tutti d'accordo. La seconda, la title-track, uno struggente strumentale post-rock impreziosito da un tema di piano scarno e minimal, la perfetta colonna sonora per lenire il dolore dell’addio a questa esperienza artistica.
Ci sono ovviamente i singoli da primato che hanno preceduto il disco, “Splash”, “Cose da pazzi” e “Considera”, e quelli che probabilmente verranno, pienamente all’altezza del successo dei precedenti, e mi riferisco a “Neanche con Dio” e “30.000 euro”. C’è anche il colpo di genio, “Ragazzo di destra”, la bestia nera (anzi, rossa) degli opinion leader più permalosi tra le squadrette dei fratellisti d’Italia e dei fasciomeloniani, feriti nell’orgoglio dall’invito a mangiarsi il gelato con qualcuno, in un giorno di festa.
Non potrebbero mancare quindi le immancabili citazioni anni ottanta, a partire dal Battiato de “La voce del padrone” protagonista in “Sesso e architettura” o il soft-pop dei Tears For Fears di “Everybody Wants to Rule the World” che riecheggia, almeno nel ritmo, in “Forse domani”, brano che annovera la riuscita partecipazione di Joan Thiele. C’è persino il featuring impossibile di Ivan Graziani (Francesca Michielin ne sa qualcosa) nella traccia “I marinai”, presente con uno stralcio di inedito recuperato dai nastri del rocker abruzzese che, con la sua stessa voce, ci riporta a quel modo di fare i lenti nel torbido periodo del pop di quegli anni, con una melodia che invita all’armonizzazione del tema di “Soleado” dei Daniel Sentacruz Ensemble.
Anche se apparentemente riconducibile alle canzonette del momento, la musica di Colapesce e Dimartino si conferma un riuscito esperimento di trasposizione in chiave metafisica dell’ordinarietà, il frutto di una naturale intelligenza artificiale in grado di raccontare, con poesia e ironia, la contemporaneità. Ed è in questo aspetto, più di ogni altro, che sublima la sicilianità più psichedelica delle tracce che compongono Lux Eterna Beach, l’opera conclusiva di un’esperienza che difficilmente dimenticheremo. Meno male, stanno già cantando, coperti dalla musica in crescendo, Colapesce e Dimartino, con quel vezzo di indietreggiare dal microfono per restare protetti dagli strappi di chitarra, questa volta allontanandosi per sempre e senza bis. Meno male, stanno già cantando, non si vede la fine.