T’ammorba l’anima con l’occhiolino e un sorriso, Lana Del Rey, al punto che quasi subito ti trovi impigliato in una tela di ninnenanne la cui trama è fatta di dolcissima (ma non melensa) malinconia (la sua) e cinica stronzaggine da liceale (sempre la sua). Questa donna è pienamente consapevole del proprio talento e si diverte a giocare col pubblico buttando qua e là riferimenti e citazioni che caricano Lust For Life, quinto album della cantatrice newyorkese, di simbolismi non sempre immediatamente riconoscibili.
Confesso che quando nel 2012 uscì Born To Die, la prima cosa che pensai fu: “Ecco un’altra bimbaminkia uscita dal web che si dà arie da intellettuale – tempo sei mesi e sarà dimenticata.” Facile prendere abbagli e sparare cazzate in un mondo – quello dell’indie-pop, ma non solo – talmente frammentato e frammentario da essersi definitivamente appiattito su un livello di mediocrità secondo solo – forse – ai talent show; facile prendere abbagli e sparare cazzate quando ti devi confrontare con un personaggio del calibro di Lana Del Rey e improvvisamente ti accorgi che tutto è tranne una “bimbaminkia”; facile prendere abbagli e sparare cazzate quando non si è più abituati ad avere a che fare con artisti veri, cioè quella categoria di persone che si è estinta con l’avvento di internet e col boom delle business school ovvero le scuole di management da cui escono i milioni di tecnologici balilla contafagioli che (si presume, con rassegnato scetticismo) hanno l’onere e l’onore di far progredire il mondo.
Il lettore avrà già capito fino a che punto l’autore di questo articolo abbia cambiato idea sul personaggio in questione (accadde definitivamente nel 2014, quando usci Ultraviolence), e sarebbe pertanto pleonastico tesser lodi ulteriori alla sua caratura artistica.
Un esempio?
Lust For Life, il cui maggior difetto sta in una lunghezza forse eccessiva (16 brani e 72 minuti, al giorno d’oggi, richiedono una capacità di concentrazione che l’essere umano contemporaneo sta drammaticamente perdendo) potrebbe avere due (almeno) livelli di lettura. Uno: l’America attuale, colta in un momento di grande tensione fra tradizione e progresso. Due: l’Americana attuale, colta in un momento di grande tensione fra tradizione e progresso. Lo si coglie anche dai numerosi featuring del progetto - da un lato A$AP Rocky, Playboi Carti e The Weeknd, dall’altro Stevie Nicks e Sean-il-figlio-di-Lennon – il dualismo che gli Stati Uniti (ossia tutto il mondo occidentale) stanno vivendo; e lo si coglie dalle citazioni (lo è anche il titolo?), dai riferimenti e dai simbolismi cui s’accennava poc’anzi: l’album si apre con “Love” che cita “Don’t Worry Baby” e si chiude con “Get Free” che si struscia sensualmente su armonie radioheadiane (“Creep”), e qui mi fermo per non “spoilerare” gli ascoltatori più attenti togliendo loro il gusto di scoprire non pochi altri riferimenti sonori, letterari e visivi (un suggerimento: confrontate l’immagine di copertina del nuovo album con quella di Born To Die e se pensate che il sorriso di Lana sia sereno e rasserenante, lasciate perdere questo disco e continuate ad ascoltarvi Despacito).
Grandi svolte stilistiche non ce le aspettavamo e infatti non ci sono: la formula rimane più o meno la stessa che conosciamo, una miscela di vintage (afflati d’archi da trailer hollywoodiano) e ultra moderno (soprattutto nelle scansioni ritmiche hip-hop) a sottolineare ancora quella tensione fra tradizione e progresso su cui Elizabeth Woolridge Grant (questo il suo nome di battesimo) continua a interrogarsi con un cupezza che qui si fa a tratti meno greve, più posata e, verrebbe da dire, matura.
Il tempo ci dirà se questo è il classico disco di transizione o l’inizio di una nuova fase per la cantautrice americana. La sola certezza che abbiamo oggi è che nell’odierno mare magnum della mediocrità massificata elevata a “sola arte accettabile”, Lust For Life è un salvagente irrinunciabile.