La defezione dei Katatonia è stata un brutto colpo ma la seconda giornata del Luppolo in Rock non ne ha risentito in modo così irreparabile. Al posto della band svedese, costretta a dare forfait all'ultimo momento a causa degli ormai proverbiali scioperi dei voli di queste settimane, sono stati chiamati i nostrani Fleshgod Apocalypse, Leprous e Moonspell spostati nel ruolo di co headliner con un maggior tempo a loro disposizione.
Al netto dell’importante defezione, va detto dunque che la line up rimane sempre di alto livello: nonostante gli organizzatori abbiano, molto correttamente, offerto il rimborso a chi lo avesse richiesto, sarebbe comunque un peccato perdersi cinque band così interessanti, oltretutto in una location davvero suggestiva. C'è tanto verde, nell'area del Parco Ex Colonie Padane adibita al festival, chioschi per mangiare e bere (a prezzi più che onesti), accesso agevole e gratuito all'acqua (gli organizzatori dei vari I Days e Firenze Rocks prendano nota, per favore) e zone d'ombra a sufficienza, sia per rilassarsi tra un set e l'altro, sia per godersi le esibizioni del pomeriggio senza rischiare di svenire.
Arrivo troppo tardi per vedere gli Shores of Null, per cui la mia giornata inizia coi Novembre. La band romana è stata, nella seconda metà degli anni ’90, una delle poche realtà nostrane a godere di un certo consenso all'estero (grazie anche alla collaborazione con Dan Swano), col trittico "I Wish I Could Dream It Again", "Arte Novecento" e "Classica" che ancora oggi può essere annoverato tra le cose migliori del metal italiano. Penalizzati eccessivamente dal sole implacabile che, poveri loro, va a battere proprio direttamente sul palco, i cinque danno vita comunque ad una performance intensa ed impeccabile, le atmosfere malinconiche e i colori scuri delle loro canzoni rese alla perfezione anche nel chiarore del giorno. "Nostalgiaplatz", "Everasia", "Love Story", "Cold Blue Steel", "Dreams of Old Boats", sono solo esempi di un repertorio stellare, e non possono che far provare un bel po' di rammarico per tutto quello che avrebbero potuto raccogliere e che invece, per un motivo o per l'altro, non hanno raccolto. Ad impreziosire un set già splendido, è arrivata anche una cover di "Rapture", dal primissimo periodo dei Paradise Lost. Ursa, il loro ultimo disco, è del 2016. Speriamo che tornino presto in pista perché ne sentiamo il bisogno.
Molto difficile capire come facciano i Fleshgod Apocalypse a resistere a questo caldo, agghindati coi loro ingombranti vestiti di scena e pitturati con tanto di face painting. Sta di fatto che il gruppo di Perugia, che è stato raggiunto solo il giorno prima dagli organizzatori, si dimostra un forma impeccabile e viaggia a mille, trascinato da un batterista fenomenale come Eugene Ryabchenko. La soprano Veronica Bordacchini non ha potuto esserci ma ciò non inficia troppo la performance, con le sue parti coperte in parte dal bassista Paolo Rossi e una ragazza non specificata a dare una mano nell'esecuzione di "No".
Gran concerto, comunque, con Francesco Paoli grande mattatore, growl potente e chitarra letale, per un set che sfodera le cose migliori ("The Fool" e "Healing Through War", “The Forsaking”, tra le altre) di un repertorio di primo livello, che non a caso ci ha messo poco per conquistare anche l'Europa. Grande partecipazione del pubblico, nel finale sono pure partiti un wall of death e un Circle pit, nonostante la temperatura. A tutt'oggi i Fleshgod Apocalypse sono un'eccellenza di cui essere orgogliosi; non hanno fatto cessare il dispiacere per l'assenza dei Katatonia ma è stato comunque bello averli visti.
Non vedevo i Moonspell dal vivo da tantissimo tempo e non sapevo bene che cosa aspettarmi. Personalmente non li seguo più da Night Eternal (2009), un po' perché ho nel frattempo diversificato i miei ascolti, un po' perché dopo essersi assestati, più o meno dai tempi di The Antidote, su un Death Metal lineare dalle tinte scure, con poche concessioni alla melodia, mi sembravano diventati piuttosto prevedibili. Ma per anni sono stati una delle mie band preferite, dischi come Wolfheart e Irreligious hanno marcato in modo indelebile la mia giovinezza e avevo quindi una certa voglia di assistere di nuovo ad un loro concerto.
Il nucleo originario è rimasto intatto, con Ricardo Amorim alla chitarra e Pedro Paixao alle tastiere ad affiancare il cantante e paroliere Fernando Ribeiro, ma in generale la formazione è stabile da circa dieci anni.
Non conosco per nulla gli ultimi album ma l'opener "The Greater Good" e la successiva "Extinct" mi fanno intuire che in tempi recenti il gruppo abbia recuperato parte della componente melodica e addirittura, almeno a giudicare dagli altri episodi nuovi presenti in scaletta, che siano pure ricomparse un po' di quelle atmosfere gotiche che fecero la loro fortuna agli esordi.
Fernando Ribeiro, che negli ultimi anni sfoggia un look inedito con barba e capelli corti, ha perso molta potenza sul growl ma rimane il frontman mostruoso che ricordavo, oltre che sul registro pulito la sua voce è sempre tremendamente affascinante. Il resto del gruppo è davvero in palla e, complice anche l'ottima resa sonora (una certezza assoluta, almeno nella giornata di oggi, complimenti ai fonici) dà vita ad una performance spettacolare. I miei ricordi dei loro passati concerti sono ormai sbiaditi per cui mi è difficile fare paragoni ma, davvero, è stato sorprendente trovarli così potenti, nitidi e precisi.
La setlist è molto equilibrata, da festival: ci sono i brani recenti ("Apophthegmata” dall'ultimo Hermitage e soprattutto "The Last of Us" molto catchy nell'andamento ritmico e nel ritornello, sono state delle belle scoperte) ma anche tante cose del passato, tra cui le sempre efficaci "In and Above Men", "From Lowering Skies", "Finisterra" (quest'ultima penalizzata da una prova vocale non impeccabile) e una meravigliosa "Abysmo", direttamente da quel Sin/Pecado che, quando uscì, deluse quasi tutti e fece impazzire il me ventenne di allora, sorta di anticipazione occulta del fatto che più avanti avrei scoperto i Depeche Mode.
Ovviamente arrivano anche gli estratti dai due capolavori di cui sopra: "Opium" fa ancora impazzire tutti come venticinque anni fa, "Mephisto" è oscura e magnetica come nella versione originale mentre l'inno pagano "Alma Mater" spazza via tutti con la forza del tema portante ed è cantato da un pubblico che per tutto il set non ha fatto mancare il proprio calore. E poi, come da copione, ecco "Full Moon Madness" a salutare la notte incombente, elegante ed ipnotica come non mai.
Li davo per finiti e invece i Moonspell hanno saputo sorprendermi ancora una volta. Non saranno più in grado di scrivere cose memorabili ma il concerto di stasera mi fa fatto capire che hanno ancora un loro perché.
I Leprous sono una band atipica, almeno in termini di Progressive Metal. Pur seguendo gli stilemi del genere, sono sempre andati per la loro strada, con una scrittura particolarmente originale, che flirta, seppur in modo discreto, col Metal estremo, ma guarda anche dalle parti di act sperimentali come i Tool.
La voce di Einar Solberg non mi è mai andata a genio, ho sempre trovato il suo timbro troppo leggero e pulito, poco in linea con le strutture spesso intricate delle loro canzoni. Ciononostante dal vivo sono una garanzia. A fine anno li avevo visti a Trezzo d'Adda, nell'ambito di un tour speciale per celebrarne i vent'anni di attività. Era stato uno dei pochissimi concerti dell'epoca che prevedeva posti in piedi ed anche per questo me lo ricordo con particolare affetto.
Stasera hanno la responsabilità di non deludere quella parte del pubblico che era lì per i Katatonia e che ciononostante ha deciso di rimanere: a tal proposito, arrivati a sera è ormai evidente che, pur non essendoci il pienone, l’affluenza sia più che soddisfacente, segno che gran parte del pubblico ha scelto di credere nel festival piuttosto che nel singolo gruppo; trattandosi di Italia, lasciatemi dire che è un gran risultato.
Il cambio palco è più lungo del previsto ed è solo alle 22.30 che i cinque norvegesi fanno il loro ingresso on stage sulle note struggenti di "Out of Here". Suoni perfetti, pulizia e precisione nell'esecuzione, questa band è davvero una garanzia. Einar e Tor Oddmund Suhrke si occupano spesso delle tastiere e delle poche parti elettroniche presenti, i brani alternano atmosfere intimiste a ritmiche geometriche e riff secchi e minimali, col drumming di Baard Kolstad a costituire un'efficace colonna portante delle costruzioni del gruppo.
Einar Solberg è un ottimo cantante, come dicevo la sua voce non mi è mai piaciuta troppo, anche il suo insistere sulle note alte non mi è mai parso sposarsi bene con le suggestioni spesso cupe e drammatiche che i suoi compagni sanno evocare; è indubbio però che dietro il microfono ci sappia fare e che sia padrone del campo pur non avendo una presenza scenica imponente come altri suoi colleghi.
Il resto del lavoro lo fa il repertorio: non più legati come quest'autunno alla scansione cronologica dei dischi, i Leprous spaziano a piacimento tra le cose più conosciute, quelle che in sede di festival hanno più probabilità di arrivare agli spettatori. Niente dai primi tre album, ci si concentra sul periodo recente, quello del successo ottenuto. "The Price", "Running Low", la meravigliosa “Below”, ovviamente "From the Flame", e poi nel finale le bordate di "Nighttime , "Slave" e una monumentale "The Sky is Red", coi suoi riff granitici, il feeling post apocalittico sottolineato dalle luci che colorano interamente il palco di rosso. Sono anni che finiscono così e, onestamente, non c'è modo migliore di finire.
Non una proposta facile, neppure per chi normalmente è abituato a bazzicare l’universo Prog, ma davvero una band con una marcia in più, assolutamente spettacolare in sede live.
Complimenti agli organizzatori per questo festival, iniziativa non comune nel nostro paese, che andrebbe senza dubbio pubblicizzata e supportata di più. L’anno prossimo, se ce ne sarà la possibilità, sarebbe bello partecipare a tutte e tre le giornate.
Photo courtesy: Angelo Dilda - Photo Drigo