Una parabola, quella di Heydrich, che ha riempito i libri di scuola di efferati delitti, sanguinose persecuzioni e feroci repressioni, fino a quando, nel maggio del 1942, un manipolo di valorosi, composto Adolph Opalka (il capo), Josef Val?ík, Jan Kubis e Jozef Gabcik, riuscirono ad attentarne alla vita, procurandone il decesso, avvenuto qualche giorno dopo un rocambolesco attentato.
Di questo leggendario episodio di eroismo (tutti i partigiani che presero parte al blitz, trovarono in seguito la morte, per mano dell’esercito tedesco), si era già occupato un recente film del 2016 a firma di Sean Ellis, intitolato Anthropoid, dal nome che era stato dato alla pericolosa missione. E’, invece, dell’anno successivo (ma in Italia è uscito a inizio 2019) questo L’uomo Dal Cuore Di Ferro, titolo che prende spunto dall’appellativo dato a Heydrich dallo stesso Hitler.
Se il citato Anthropoid affrontava il tempo dal punto di vista degli attentatori, indagando sulle paure, i dubbi e le speranze di costoro, votati a una missione suicida e dalle esili possibilità di successo, la pellicola di Jimenez, risulta più articolata, dividendosi sostanzialmente in due parti: la prima, in cui viene narrata l’ascesa al potere di Heydrich, uomo mediocre, amante del violino e della musica classica, ma capace di ogni tipo di scelleratezza e spinto quella forza cieca che, Anna Arendt, definì “la banalità del male”; la seconda, invece, dedicata alla preparazione dell’attentato e alle conseguenze che ne derivarono (la morte di Heydrich, le rappresaglie tedesche, l’assedio agli attentatori nella chiesa praghese di San Cirillo e Metodio).
Due diverse prospettive, dunque, e due diversi registri, per una regia che evita di concentrarsi solo sull’azione, ma che cerca di scavare anche nell’intimo di una figura tra le più abbiette che la storia ricordi (il continuo utilizzo dei primi e primissimi piani, gli sguardi che sostituiscono le parole).
Film classico, di taglio europeo, fedele alla narrazione dei fatti, in cui la prima parte, lenta e concettuale, risulta più efficace della seconda in cui, necessariamente, si accelera il passo verso un finale violento, che esalta l’epos della vicenda, con un filo di inevitabile retorica.
Una sceneggiatura solida, ma senza scossoni, è il canovaccio su cui si muovono due attori ottimamente calati nelle rispettive parti: Jason Clarke (Heydrich), in bilico fra protervia, stolida vacuità e belluini accessi d’ira, e Rosamund Pike (Lina Von Osten), moglie di Heydrich e artefice del suo successo, donna fedele e remissiva, la cui coscienza, però, viene scossa da lampi di consapevolezza e autocommiserazione.