L'ultimo dei Mohicani è uno dei grandi film d'avventura della storia del cinema ed è anche uno dei massimi esempi dell'utilizzo della dimensione epica da parte di un regista come Michael Mann che sull'epica delle storie ci ha costruito una carriera (non solo su quello ovviamente).
Il film di Mann, oltre che al romanzo di James Fenimore Cooper, guarda molto a Il re dei pellirosse diretto da George B. Seitz nel 1936, andandone a riprendere il finale che qui come allora differisce da quello descritto tra le pagine del libro di Cooper (il debito verso il film di Seitz è palesato in maniera limpida da Mann stesso).
Valutando le fasi finali del film, sequenze di grande emozione e perizia immaginifica, la scelta di Mann, e quella di Seitz prima di lui, che spinge i due registi a tradire il testo originale, è un importantissimo contributo proprio alla causa dell'epica nel racconto, un risvolto che negli occhi e nella pancia dello spettatore lascia un senso di giustezza, una compiutezza inevitabile seppur raggiunta attraverso la vendetta, la violenza e il sangue.
Nei momenti di sacrificio, nei passaggi di epoche al crepuscolo (qui c'è quello di un'intera tribù, il titolo parla chiaro), è qui che il ricordo deve costruirsi, la memoria viene a incidersi per poi perpetrarsi, il gesto diventa epica che diverrà narrazione da tramandare e in questo caso immagine (in movimento) da rinnovare decennio dopo decennio e conservare. In questo, a volte anche a discapito della costruzione della storia, qui molto lineare, Michael Mann è maestro, in equilibrio tra emozioni e fine estetica, studiatissima e sempre indovinata, arriva quasi infallibile a colpire nel segno, aiutato da collaboratori e attori di altissimo livello.
Territori del Nord America, lungo le rive del fiume Hudson, la guerra tra inglesi e francesi di metà 1700 trova le sue propaggini nel nuovo continente. In questo scenario una famiglia di mohicani cerca di condurre la propria esistenza rimanendo al di fuori delle dinamiche venutesi a creare tra i due eserciti, entrambi invasori.
Nathan (Daniel Day-Lewis) è di origine inglese ma adottato in tenera età da Chingachgook (Russell Means) e cresciuto insieme al fratello mohicano Uncas (Eric Schweig). Bisognoso di combattenti da opporre all'esercito francese l'esercito britannico, nella persona del tenente Duncan Heyward (Steven Waddington), cerca di reclutare alla causa coloni e nativi della zona, offerta che viene rifiutata da Nathan e dai suoi.
Durante uno spostamento verso il forte presieduto dal colonnello Munro (Maurice Roeves) la compagnia di Heyward viene tradita e attaccata da un gruppo di indiani uroni comandati da Magua (Wes Studi) il quale nutre un odio personale nei confronti di Munro. Tra gli assaliti figurano anche le figlie di Munro, Cora (Madeline Stowe) e Alice (Jodhi May), salvatesi solo grazie all'intervento tempestivo della famiglia di Chingachgook.
Magua non rinuncerà alle sue prede, Heyward innamorato di Cora inizierà a vedere Nathan come un avversario, gli ultimi rappresentanti del popolo dei mohicani si troveranno così invischiati in una guerra che avrebbero voluto evitare a tutti i costi.
Oltre alla costruzione di momenti e situazioni tesi a esaltare l'epica del racconto, Mann lavora molto bene sul paesaggio e sui movimenti dei protagonisti. La prima e l'ultima sequenza si parlano da vicino: la prima è ingannevole, ci sembra di entrare nel film già in piena battaglia con un Daniel-Day Lewis impegnato insieme ai suoi compagni in un inseguimento, forse in una fuga, lanciati a rotta di collo nei boschi di una natura fotografata in modo sapiente dal friulano Dante Spinotti; in realtà quello a cui assistiamo è una caccia al cervo, le battaglie saranno di là da venire.
L'ultima sequenza invece, girata su un costone di montagna, porterà al confronto finale, al culmine di quella sensibilità "manniana" che pervade l'intera sua filmografia, anche qui si palesa un piccolo inganno, uno di cui lo spettatore facilmente si è autoconvinto, l'ultimo dei mohicani non è il nostro protagonista, seppur di diritto appartenente alla tribù, bensì il suo padre adottivo. L'ultima sequenza è magistrale, tesa, emozionante, e se si ricorda il confronto finale tra gli esponenti delle due tribù rivali, mohicani e uroni, non è da meno quello breve tra la giovane Alice e Magua, un confronto dal quale il capo indiano esce inevitabilmente deprivato del suo valore, sminuito nella sua persona. Nel mezzo una storia d'amore abbastanza canonica ma impreziosita dall'ottimo affiatamento di tutti gli interpreti.
Piccola curiosità: nessuno degli interpreti indiati ha discendenza dal popolo dei mohicani; Russell Means è un lakotah ed è stato anche un importante attivista per i diritti della sua gente, Wes Studi è di origini cherokee mentre Eric Schweig conta discendenze chippewa. A chiudere il tutto una bella colonna sonora con uno di quei temi che si ricordano per un film che resterà a futura memoria.