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REVIEWSLE RECENSIONI
07/07/2017
Mary Bragg
Lucky Strike
Un pugno di canzoni di americana in bilico fra rock e country, cantate col cuore in mano dal limpido soprano della Bragg, capace di notevole estensione ma anche di trasformarsi in un sussurrato refolo che scalda il cuore.

La storia di Mary Bragg è la storia di un’artista inquieta, di una donna che ha girato gli States in lungo e in largo per trovare, finalmente, a Nashville, una casa dove stabilizzare la propria creatività. Nata a Swainsboro (Georgia), nel profondo Sud degli Stati Uniti, Mary è cresciuta in una famiglia numerosa (quattro fratelli e ventun cugini, riportano le cronache), trovando poco spazio per dare voce alle proprie velleità musicali. Un viaggio a New York, le ha cambiato la vita e le prospettive, tanto che, finito il liceo, la giovane Bragg si è trasferita a vivere nella Grande Mela, per fare un’esperienza di vita, quella che poi confluirà nei testi delle canzoni di Lucky Strike, e per tentare di sfondare nel mondo della musica, favorita dal rutilante panorama di una metropoli dalle mille possibilità. New York, però, logora, soprattutto chi arriva dalla provincia: così Mary, dopo aver registrato due dischi a Manatthan (Sugar del 2007 e Tatoos & Bruises del 2011) ed aver tentato l’avventura californiana con The Edge Of This Town (2015), è approdata a Nashville, città meno caotica ma comunque fervida di suggestioni musicali. Qui, dove risiede dal 2014, è entrata subito in sintonia con la comunità roots, conquistandosi la stima di molti musicisti locali, che hanno dato poi un contributo decisivo alla stesura delle canzoni che compongono questo nuovo full lenght. L’approccio di Mary al suo nuovo lavoro è stato, a dir poco, minimal. Ha scelto un budget ridotto e uno studio di registrazione di basso profilo, con impianti e microfoni vecchi, per rendere più vero il suono, privandolo così di ogni inutile artificio. Si è fatta affiancare alla consolle da Jim Reilly (membro fondatore dei New Dylans) e scelto la strada, per quanto possibile, della presa diretta, registrando senza filtri ed evitando invasivi rimaneggiamenti in fase di post produzione. Il risultato sono dieci brani (scritte tutte in condominio con alcuni musicisti della scena nashvilliana: Liz Longley, Becky Warren, etc,) che, come recita il suo sito, “speaks to our common humanity with uncommon honesty”. Un pugno di canzoni di americana in bilico fra rock e country, cantate col cuore in mano dal limpido soprano della Bragg, capace di notevole estensione ma anche di trasformarsi in un sussurrato refolo che scalda il cuore. Una musica, quella di Mary, che gira dalle parti di Patty Griffin o, negli episodi più orecchiabili (la title track è un gioiello di melodia), da quelle di Sheryl Crow: accostamenti necessari a spiegare il mood, ma che non tolgono nulla a un songwriting a tratti originale (la nebulosa southern dell’opener Bayou Lullaby) e a un disco sincero e carico di emotività. Da provare.