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REVIEWSLE RECENSIONI
17/05/2022
Kelly Lee Owens
LP.8
Kelly Lee Owens, parte della cosiddetta scena dream pop con particolare sviluppo dell’aspetto elettronico, con LP.8 conferma l'alta qualità della sua scrittura e la profondità dei suoi arrangiamenti, mescolando il noise con le carezze eteree della sua voce.

Mi aveva estasiato col suo ultimo album Inner Song, colpito dalla chiarezza con cui mi aveva introdotto nel suo mondo, la semplicità di ritrovarcisi dentro ed aver capito tutto. E non per ultimo, un senso di fiducia verso il messaggio, la sensazione - una volta aver compreso la natura di chi parla e i suoi intenti buoni - di potersi totalmente affidare. Perché, aldilà della qualità della scrittura, quando ascolto la sua musica e la profondità dei suoi arrangiamenti, delle sue scelte di missaggio, ho la sensazione di navigare in un mondo di scelte comuni, di esser capito. Eccola la fiducia.

Produttrice e compositrice gallese classe ’88, Kelly Lee Owens fa parte della cosiddetta scena dream pop, con particolare sviluppo dell’aspetto elettronico. La profondità dei suoni in questo ultimo capitolo, iniziato l'ascolto, mi sta colpendo talmente tanto che non riesco ancora a concentrarmi sul centro del discorso. È la maestria con cui sceglie il suono giusto, lo piega, osserva mentre evolve e crea sensazioni. È "Anadlu", terza traccia del disco LP.8, quella da cui rimango tanto affascinato. Arriva dopo due tracce iniziali profonde ma ossessive, quasi ostiche, tanto che stavo già immaginandomi gli eventuali punti deboli. Mentre ne stavo decantando l’infinita fiducia mi ero in realtà sentito tradito: troppo noise, forse semplicemente troppo per i miei gusti, forse per l’effetto della co-produzione di Lasse Marhaug, produttore norvegese che nella natura noise, per l’appunto, ci vive. Però le cose sono cambiate ed anche nella quarta traccia "S.O (2)", che resto intrappolato nelle trame della nostra. I giochi si fanno seri, sono nel centro del disco.

È la voce di Kelly che fa la differenza rispetto ai capitoli introduttivi e strettamente sonori, sia nel timbro delicato sia nelle melodie, che regalano nella loro fusione con l’armonia un terzo punto imprevisto, straniante ma terribilmente accogliente. Comincio ad apprezzare il passaggio da una canzone all’altra, l’armonia e l’atmosfera.

Un suono di pad che mi ricorda il Brian Eno che incontra gli U2 di The Joshua Tree comincia la seguente "Olga", una sospensione nebulosa da cui emergono dei vocalizzi armonizzati, dei lampi sonori, e senza volerlo ho descritto un temporale. Pare davvero quello, e me ne rendo conto all’inizio della successiva "Nana Piano", per merito del cinguettio di uccellini. Capisco, attraverso l’ambientazione in cui mi trovo, quella che ho appena lasciato; grazie a questi versi visualizzo il sereno che segue una pioggia, la serenità e freschezza che l’accompagna. Il pianoforte vitreo, elemento portante del brano, fa il resto.

L’espressività è a livelli alti, forse la scrittura è lievemente vittima di alti e bassi ma mi prendo tempo, anche perchè nelle vaporizzazioni sonore che cominciano la successiva "Quickening" ci si trova bene. Ho l’impressione che sia l’esatto punto d’incontro tra le due menti produttive dell’album; lo capisco dall’esalazione sonora profonda e cupa dei sintetizzatori, che mi riporta nei due pezzi iniziali, insieme alla voce di lei: parlata, riflessiva e portante. Curioso come la ripetizione delle parole di Kelly Lee Owens assuma dei contorni maschili, un pò come se quelle contenute nell’effetto delay avessero trovato sbocco diventando voce di qualcun altro, tanto che ipotizzo possa essere Marhaug. Anche se forse sono stato condizionato e si tratta solo dell’equalizzazione della voce che va a scurire le ripetizioni.

Comincia la successiva "One" e mi riporta in quel bel senso di caldo abbandono in cui mi trovavo poco prima di metà disco: solita melodia vocale portante e dotata di trasporto. Forse lo sto dando per scontato, ma vale la pena descrivere l’alta qualità degli arrangiamenti, sia sotto l’aspetto melodico sia sotto quello sonoro, che nel mondo elettronico sono due punti che sfiorano la contemporaneità. Questo perchè in questo campo la nascita di un’idea melodica avviene nello stesso momento di quella sonora, mentre in campo pop, ad esempio, la scrittura di una canzone può attraversare varie fasi sonore prima di arrivare a quella definitiva. La semplicità con cui questo binomio tra armonia e suono trova sfogo e dimora nelle nostre sensazioni non è quindi banale.

Parte "Sonic 8", di nuovo ossessiva, con una ritmica continua ma leggera, una voce sospirante che parla veloce in un sottofondo in cui emergono le parole, una dichiarazione di libertà cercata, ottenuta di fronte a qualcosa di strano che era nell’aria e metteva in guardia dall’imminente necessità di liberarsi.

Il disco è finito. Sono un po’ stranito, esattamente nel mezzo delle mie sensazioni, come stordito dalle frequenze instabili e nel contempo addolcito dalle carezze vocali ed eteree dell’altra faccia del disco, forse a me più familiare. Credo onestamente che un po’ di aspettativa lo abbia reso meno avvolgente di quanto mi aspettassi, eppure è tutto di alto, altissimo livello, sensazioni che trasudano dalla pelle.

LP.8 è un disco che lascia l’impressione di modificarsi nel tempo, non tanto nei nostri ascolti, ma proprio nella forma sonora da cui è costituito ed è strano semplicemente perché è impossibile.
Si rimane dunque con questa sensazione di crescita, di star assistendo ad una mutazione, come di fronte ad una piccola pianta ed alle sue radici che lentamente reagiscono alla terra inumidita.
Sono curioso di vedere cosa diventerà e cosa diventeremo noi e questo disco, ascoltandoci.