Prima di parlare di Lover, il settimo album di Taylor Swift, come si fa prima di guardare una serie televisiva, è meglio fare un breve riassunto delle stagioni precedenti. Nella prima, Taylor Alison Swift è una normalissima ragazza di Reading (Pennsylvania), che, grazie alla precoce passione per la musica, all’appoggio dei genitori e a una canzone che inaspettatamente si rivela una hit (“Tim MGraw”), diventa una cantante Country di successo. Le vette raggiunte da Shania Twain e le Dixie Chicks – i suoi punti di riferimento – sono ancora lontane, ma la tenacia e l’abnegazione non le mancano. Nella seconda e nella terza stagione (Fearless e Speak Now), Taylor consolida il successo ottenuto, rompe la barriera del Country USA e diventa un artista globale, migliorando come interprete, autrice e performer.
Nel frattempo, il suo modo di scrivere fortemente autobiografico diventa un modello per molte delle giovani Pop star che a loro volta seguono le sue tracce: senza Taylor Swift, infatti, non esisterebbero né Ariana Grande né Camila Cabello né, tantomeno, Charlie XCX. Nella quarta stagione (Red), Taylor decide di lasciarsi alle spalle il Country: prima sperimenta diverse direzioni, poi, affidandosi a Max Martin e a Shellback, nella quinta stagione (1989) abbraccia definitivamente il Pop, realizzando uno degli album più fortunati della sua carriera. Se – facendo un altro paragone – Taylor Swift, Fearless e Speak Now erano gli album della high school, con Red e ancora di più 1989, Taylor è al college: ha lasciato l’amata Reading per andare a studiare a New York, ha incontrato persone molto più simili a lei, e anche gli amori sono di un tipo più maturo. Ma la crisi è dietro l’angolo e viene affrontata nella sesta stagione (Reputation) con un album volutamente ostico – e che, infatti, non fa che crescere con gli ascolti. È il disco della “Taylor adulta”, della giovane ragazza che si è lanciata con entusiasmo nel mondo ed invece in cambio ha ricevuto solo falsità e pettegolezzi, in una gara a chi la dipingeva più perfida e manipolatrice.
Ora tocca alla settima stagione, ovvero a Lover, l’album della rinascita, della consapevolezza e, perché no?, anche della leggerezza, perfettamente sintetizzabile con i primi venti secondi del video di “Me!”, uscito a fine aprile: un serpente, simbolo di Reputation, nel momento stesso in cui tenta di mordere lo spettatore, esplode, trasformandosi in mille farfalle colorate. L’esegesi è semplice: nel mondo di Taylor ora non c’è più spazio per la negatività, è meglio lasciarsi tutto alle spalle e concentrarsi solo sulle cose che si amano e che fanno stare davvero bene, come la famiglia, gli amici, il fidanzato e, ovviamente, la musica.
Prodotto e scritto in gran parte assieme a Jack Antonoff – un prezzemolino che negli ultimi anni ha lavorato con Lorde, St. Vincent, Lana Del Rey, Carly Rae Jepsen e che è al fianco di Taylor Swift dai tempi di 1989 – Lover, a differenza di Reputation, è volutamente un album ecumenico, all’interno del quale convivono in una volta sola tutti gli aspetti della personalità musicale di Taylor, come solo Red aveva saputo fare. Da quel disco, però, sono passati sette anni, Swift è cresciuta come persona, scrittrice e interprete, e i suoi orizzonti si sono ampliati: ecco spiegata quindi la necessità di far uscire un lavoro con così tanto materiale – 18 canzoni per 61 minuti di musica sono numeri da Pop anni Novanta –, nel tentativo di andare a toccare ogni genere con il quale Taylor desideri cimentarsi. È un lavoro, quindi, che ha nell’accumulo la sua vera forza, con i pezzi che si trovano spalla contro spalla sotto lo stesso tetto senza avere nulla in comune se non l’interprete.
Ovviamente, Lover non è ambizioso ed eterogeneo alla maniera di Father of the Bride dei Vampire Weekend, per fare un esempio. Dopotutto, Swift e Antonoff hanno preferito rimanere legati alle sonorità di fine anni Ottanta omaggiate in 1989, ma se lì spesso e volentieri il sound era freddo e oscuro, qui prevalgono i toni pastello e un certo senso di divertimento. Insomma, al centro di Lover c’è tanta voglia di vita, tanta luce e tanta sincerità – come a voler abbracciare ogni emozione un essere umano possa provare –, e c’è la precisa volontà di riconnettersi con tutte le Taylor del passato, per verificare una volta di più quanta strada è stata fatta nel frattempo. Succede nella mini suite di “Miss Americana & the Heartbreak Prince”, dove Taylor sembra dialogare con la sé stessa di Fearless; oppure in “Daylight”, nel testo della quale ci sono chiari riferimenti al periodo legato a 1989. E che dire di “Soon You’ll Get Better”? Accompagnata dalle Dixie Chicks – al lavoro proprio con Jack Antonoff a un nuovo album di materiale inedito dopo 13 anni di silenzio discografico, altro che Tool –, Swift canta della madre e dei suoi problemi di salute: se un tempo era Taylor che si aggrappava alle sue gambe, ora è la figlia che si fa carico di avere coraggio per entrambe.
Ma è la spensieratezza – e una consapevole volontà di essere sciocchi – a farla da padrona in Lover. “Paper Rings” è forse la canzone più effervescente che Taylor abbia scritto; “Me!” (in duetto con Brandon Urie dei Panic! at the Disco) sembra uscita direttamente da un musical; e “London Boy” (che si apre con un’introduzione di Idris Elba) è volutamente goffa e piena di stereotipi – sarebbe da chiedere a un inglese cosa ne pensa in proposito.
Intelligente com’è, Taylor Swift sa che ha bisogno di momenti di alleggerimento come questi per poter poi dare risalto a quei pezzi che invece affrontano argomenti più complessi. In “I Forgot That You Existed” lancia un paio di frecciatine alla critica musicale; in “The Man” documenta la fatica che ancora oggi una donna deve fare per essere presa in considerazione alla pari di un uomo, usando Leonardo DiCaprio come esempio per spiegare un certo sessismo istituzionalizzato; e con “You Need to Calm Down” scrive una sorta di inno rivolto contro tutti gli hater e gli omofobi, confermando ancora una volta la sua vicinanza alla comunità gay.
A voler fare i pignoli, si potrebbe dire che la proposta musicale di Taylor Swift non è né innovativa né particolarmente originale. Nel mondo del Pop ci sono artisti che fanno quello che fa meglio di lei. “Miss Americana & the Heartbreak Prince” è un pezzo che potrebbe essere uscito dal repertorio di Charlie XCX; il Pop sofisticato che piace tanto a Pitchfork di “False God”, con i suoi synth minimali e quel sax spettrale, sembra preso di peso dall’ultimo album di Carly Rae Jepsen; “The Man” potrebbe averla incisa Kesha qualche anno fa; così come “Lover” non è niente che i Mazzy Star non abbiano già fatto nel 1993 con “Fade Into You”. Ma c’è una differenza sostanziale: Taylor Swift, da grande autrice, ha la capacità di cucirsi il pezzo addosso e renderlo migliore. Cosa sarebbe successo se “Cruel Summer”, scritto assieme ad Annie Clark, lo avesse invece inciso St. Vincent? Mistero, ma di sicuro sappiamo che la versione presente in Lover è un pezzo Pop sostanzialmente perfetto, che trova la sua forza nell’interpretazione. E lo stesso dicasi per “The Archer” e “Death by a Thousand Cuts”, la prima costruita su un etereo tappeto di synth e la seconda su un arpeggio di chitarra messo in loop – ma la vera rivelazione è la voce di Swift, mai così espressiva e piena di sfumature, che le permettono di reggere praticamente da sola un pezzo minimale come “It’s Nice to Have a Friend”.
Due anni fa Taylor Swift chiudeva Reputation – un album scuro, pieno di sofferenza e solitudine – individuando la luce in fondo al tunnel in “New Year’s Day”. Il viaggio iniziato quasi cinque anni fa con 1989 sembra essere giunto alla conclusione. In “Daylight”, ultimo pezzo di Lover, Taylor congeda l’ascoltatore con le parole di una ragazza che, alla soglia dei trent’anni, sa benissimo chi è e cosa vuole essere. Abbracciando ogni aspetto della propria personalità – la sognatrice, la maniaca del controllo, la ragazza innamorata, la figlia amorevole, la Pop star attivista – Taylor ha forse realizzato il disco che la rappresenta di più. Non necessariamente il migliore – ognuno ha la sua opinione –, di sicuro il più vero.