Grande amante del jazz e delle sue contaminazioni e arrivato ad un punto della vita in cui può permettersi di fare quel che cazzo gli pare, ha decisamente virato in questa direzione lasciando al passato suoni, ritmi e canzoni di facile presa. Prova ne è anche l’ultimo suo album, “Love Will Find A Way”, parte finale di una ipotetica trilogia jazz iniziata con “Dreams” uscito nel 1999, passando per “Soul On Jazz” del 2002. Album composto per la maggior parte da cover, esclusi gli episodi di pezzi strumentali, cantato e suonato con la crema di quel movimento che ha preso il jazz e lo ha rivoltato come un calzino, di fatto facendolo entrare nel XXI secolo. Quindi spazio a musicisti dalle orecchie in stile Dumbo giusto per non lasciarsi sfuggire tutto quanto la musica black ha prodotto negli ultimi quarant’anni facendo della musica improvvisata nuovamente oggetto di attenzione anche da parte di chi ne ha sempre masticata poca: insomma per esemplificare, meno masturbazioni da intellettuali stitici di emozioni e più pratiche sessuali di coppia.
Spazio allora a Robert Glasper, Kamasi Washington e poi ancora Christina McBride, Steve Gadd, Christian Scott aTunde Adjuah, al rapper will.i.am, al sax di Casey Benjamin, alla voce di Bilal, alla
chitarra di Lionel Loueke, alla batteria di Kendrick Scott e al basso di Derrick Hodge.
La partenza è col botto: “Billy Jack”, una gran bella cover risolta in afro-beat di un misconosciuto pezzo di Curtis Mayfield, forse il maggior punto di riferimento per il falsetto di Bailey. “You’re Everything” omaggia Chick Corea e i suoi Return To Forever, spogliandolo dalle verbosità della fusion. Ancora spazio a Curtis Mayfield con “We’re A Winner” versione cantata magistralmente da Bailey in compartecipazione con Bilal, in pratica un vero atto di devozione nei confronti dell’artista di Roswell. Ancora groove tribale di matrice afro nel bellissimo strumentale “Stairway To The Stars”, brano dominato dalle scorribande trombettistiche di Christina Scott aTunde Adjuah’s e dalle percussioni di will.i.am.
Ancora uno strumentale nel successivo “Brooklyn Blues” che vede Bailey impegnato alla kalimba, pezzo di jazz contemporaneo molto vicino agli insegnamenti di Robert Glasper, preludio alla vera sorpresa dell’album: la cover di “Once in A Lifetime”, sì proprio quella dei Talking Heads. Già mi immagino i difensori indefessi del verbo byrniano urlare al sacrilegio, quando invece basterebbe semplicemente prendere dei cotton fioc e togliersi un po’ di cerume frutto di abitudini e di ascolti sempre uguali a se stessi. Qui Bailey fa l’unica cosa da fare con una canzone che di per sé è passata alla storia; non una versione copia carbone ma uno stravolgimento virato in r’n’b, spoken word e falsetto con una coda di piano jazz contrappuntato dalla tromba, e il bello è che funziona alla grande, con grande scorno dei soliti talebani.
Poteva mancare un omaggio a Marvin Gaye, altro nume tutelare di Bailey, in questo disco? Ecco arrivare infatti “Just To Keep You Satisfied”, e qui il falsetto di Bailey dà il meglio di sé, così come la sezione strumentale che la accarezza con un impianto jazz da camera (sì, anche da letto cari miei). Arrivati fin qui potremmo già ritenerci soddisfatti di quel che abbiamo ascoltato, anche se... Sì, manca decisamente qualcosa che suggelli il ritorno di Bailey e infatti le note di sax che aprono “Sacred Sounds” vanno in questa direzione; chi se non Kamasi Washington, autentico santone del jazz di fine decennio, può entrare di prepotenza nel disco e portarlo ad una vetta assoluta. Qui, oltre al verbo di Mr. Kamasi va segnalata anche la maestria pianistica (piano Fender eh, il meglio del meglio) di Robert Glasper, due giganti che ci riportano alle atmosfere Jazz fusion degli anni ‘70, le migliori, quelle meno compromesse con le moscerie degli anni successivi.
Jazz funk per “Long As You’re Living” pezzo che ci porta in direzione New Orleans e finale nonché title-track affidata ad un brano di Pharoah Sanders che vede Casey Benjamin al sax soprano e la voce di Bailey a tratti trasfigurata dal vocoder, eterea e sognante.
Un album da gustarsi e centellinare come un buon vino, un buon mix di classicità e suoni contemporanei, lontano mille miglia da sterili e patetici revivalismi.