Avevo incontrato Josh Rouse e le sue canzoni una ventina di anni fa, quando il suo album “Nashville” fece capolino sul mio impianto stereo per poi restarci stabilmente per diversi mesi. Il fatto è che poi il ragazzo arrivava da un altro lavoro più che notevole, “1972”, ed era lecito quindi aspettarsi altri lavori che, se non proprio su quei livelli, perlomeno si fossero avvicinati.
Accadde però che il buon Josh si innamorasse perdutamente di una ragazza spagnola, abbandonasse gli States per recarsi colà nella terra del sol, dritto nelle braccia della gentil donzella. Si, la carriera di Rouse è proseguita, ma già dall’album successivo a “Nashville”, “El Turista”, è come se quella fiamma inestinguibile che risponde al nome di musica pop, quella che illumina la mente di alchimisti delle note come possono esserlo un McAloon o un McCartney e che si diffonde come piccole scintille nella mente dei cantautori più sensibili, se ne fosse andata. Non che gli album successivi fossero brutti, ma è come se mancasse loro qualcosa, come se fossero sospesi in un limbo di possibilità non colte. Magari Rouse avrà usato quella scintilla per altre cose più soddisfacenti, e di questo non gliene faccio un torto, fatto sta che con il ritorno del nostro in quel di Nashville (la moglie, ahilui, è rimasta in Spagna in attesa della Green Card) sembra proprio che sia ritornata anche l’ispirazione di un tempo.
Uscito da pochissimo (metà aprile), “Love in The Modern Age” fa riaffiorare quel lume che sembrava smorzato e conferma che Rouse appartiene alla schiatta dei cantautori nobili del genere.
Un album dalla musicalità con tutti e due i piedi dentro gli anni ottanta, quindi largo uso di synth ma con intelligenza e semplicità, come all’apparenza possono sembrare le canzoni di un rinato Rouse.
Gli anni ‘80 di Rouse non sono quelli resi celebri dai “New romantic” o del pop più sfacciato ma quelli raccontati in punta di piedi da band come i Blue Nile, una passione confessa del nostro, e di un mai abbastanza citato McAloon, che i più scaltri di voi potranno sentire aleggiare in “Ordinary People, Ordinary Lives” e nel cantato della title track (quella voce femminile ditemi se non vi ricorda Wendy Smith) con quella traccia di sax che arriva dritta dai solchi di “Andromeda Heights”.
Altrove, ma molto più sottotraccia, arrivano echi dei Cure e degli Smiths, a conclusione del cerchio che gira intorno a quella decade.
Un disco di belle canzoni, in fondo, rivestite con un abito diverso da come ci possiamo aspettare da Rouse, che ci ricorda che alla fin fine altro non è che uno che se la gioca con atmosfere folk-pop e di queste ne fa sfoggio nell’ultimo brano del disco, “There Was A Time”, dove con tonalità baritonale in stile Leonard Cohen, imbraccia la sua chitarra acustica e ci riporta nel passato e nelle storie di quella “Nashville State Of Mind” che amai così tanta in quei giorni del 2005.