“Splendono lungo la mia schiena le paure che mi hanno impedito di volare Le guardo bruciare per poi risorgere dalla cenere e credere che sia possibile evolversi, evolversi partendo dalla distruzione”.
Questo splendido verso è tratto dal testo della title track, Araba Fenice. Vorrei iniziare l’intervista da queste parole, perché mi sembrano la cartina di tornasole per comprendere il senso di tutto il disco.
K- Queste parole le ho aspettate per tutto il periodo di realizzazione del disco. Avevo deciso quale sarebbe stato il titolo dell’album ancor prima di iniziare a scriverlo. A registrazioni concluse avevo questo piccolo rammarico, il fatto di non essere riuscita a scrivere un pezzo che raccontasse con immagini chiare la rinascita di cui parlavo in tutto il disco. L’album era ormai chiuso, dopo due mesi in maniera del tutto inaspettata è arrivata questa canzone. Oggi penso che non poteva arrivare in un momento migliore, solo a rinascita compiuta avrei potuto scrivere questo pezzo…e così è stato.
Penso che Araba Fenice sia un disco bellissimo perché vive di contraddizioni e dualismi. E’ un disco che parla di sentimenti, anche molto intimi e profondi. Eppure, sfugge alle regole di genere, grazie a testi capaci di insolita ironia. Si percepisce fra le pieghe dell’album un dolore taciuto, che fornisce l’innesco della tua poetica. Per converso, il disco suona come uno sprone a reagire, a cercare il cambiamento, a non accettare passivamente gli eventi delle nostre vite. Un’esperienza intima da cui nasce un messaggio universale. Dove si trova la forza, come nasce questa piccola, grande rivoluzione interiore?
K- Quando ci si trova ad affrontare eventi, situazioni, cambiamenti che non avevamo previsto, quando improvvisamente qualcosa fa crollare i nostri piani o un dolore inaspettato ci colpisce, dopo lo sconforto e lo smarrimento iniziale in ognuno di noi inizia a fiorire un inspiegabile forza, un coraggio che non sapevamo di possedere, io ho attraversato il fuoco e ne sono uscita viva e più forte di prima. Ho sentito il bisogno di raccontare questa storia attraverso canzoni nelle quali chiunque potesse specchiarsi e riconoscersi.
Ho trovato la produzione di Daniele Senigallia semplicemente perfetta, asciutta, mai sopra le righe. Come si è sviluppata la vostra collaborazione? Come avete proceduto, nel corso delle registrazioni?
K- Desideravo da tanto lavorare con Daniele Sinigallia, artista di cui avevo sempre apprezzato e amato le passate produzioni. Ignoravo il fatto che in lui avrei trovato non solo un artista dalla spiccata sensibilità ma anche un amico che è riuscito a portare il suo talento e la sua anima in un disco di canzoni già strutturate, fondendosi con la mia personalità con estrema naturalezza. Abbiamo lavorato spalla a spalla confrontandoci, abbiamo seguito in maniera assolutamente naturale il flusso creato dalle canzoni stesse, ci siamo lasciati trasportare.
Mi ha colpito molto la tua capacità di scrivere liriche fuori dall’ordinario. Affilate, ironiche, talvolta scorbutiche, sempre intelligenti. Come nasce questo processo creativo?
K- Le mie canzoni nascono tutte in maniera assolutamente istintiva, non imbraccio mai la chitarra con l’intento di scrivere una canzone che parli di un argomento in particolare, inizio a suonare e poi arrivano le parole, inaspettate, mai previste. Negli anni ho cercato di sviluppare un mio linguaggio cercando di fare un lavoro di sottrazione, usare poche, pungenti parole e concetti molto diretti mai nascosti dietro metafore o in qualche modo fraintendibili. La canzone è un mezzo fortissimo, puoi in pochi minuti e con poche parole esprimere infinite cose, provocare infinite emozioni.
Una delle canzoni che amo di più è Non Chiamarmi Amore, arguta riflessione sulla vita di coppia, in cui la protagonista afferma la propria precisa identità, il nome e non un nomignolo, nella consapevolezza che l’io non può essere mai annullato nell’indeterminatezza del “noi”. La prospettiva è ribaltata, spiazzante.
K- In questa canzone parlo di quotidianità ripercorrendo immagini semplici con l’intento di permettere a chiunque di riconoscersi nelle parole del testo, un testo che racconta quanto possano essere preziosi e importanti i momenti vissuti insieme se gli si da il giusto peso e di quanto sia fondamentale non perdere mai di vista se stessi. Annullarsi all’interno di una coppia, nel tempo, risulta inevitabilmente distruttivo per la coppia stessa.
In scaletta hai inserito una sola cover, Mokarta, canzone del gruppo messinese dei Konsertu. La reinterpretazione è da brividi, attraversata da un cupo e vibrante pathos. Ci racconti il perché di questa scelta?
K- In questo disco parlo di attraversamenti del fuoco, simbolica morte e rinascita. A rinascita compiuta, come ultima traccia del disco, volevo lasciare un segno potente che potesse permettere al cerchio che avevo disegnato di chiudersi, volevo che i due punti, quello di partenza e quello di arrivo, si incontrassero e che la mia nuova “me”, nel suo essere diversa, riconoscesse comunque di essere rimasta sempre la stessa ritrovando le sue radici che non potevo non lasciar affondare in terra Siciliana.
Quando ascolto Mokarta, ma è una sensazione che provo per tutta la durata del disco, mi viene da chiedermi dove hai preso quella voce pazzesca.
K- Ho sempre dato un valore altissimo alla potenza comunicativa della voce, ho cercato negli anni di sviluppare un linguaggio che mi permettesse di utilizzare ogni piccola sfumatura del mio strumento vocale, ho provato ad eliminare qualsiasi tipo di barriera tra il mio sentire e il modo in cui potevo trasmetterlo agli altri. Così come nella scrittura, anche nel mio modo di cantare, negli anni, ho cercato di eliminare tutto il superfluo e cercato il modo più fluido e diretto per trasmettere le emozioni che provo quando canto.
Parliamo un poco di te. Che cosa avrebbe fatto Teresa se non ci fosse stata Katres?
K- Non immagino nulla di diverso per me, sono nata e cresciuta inseguendo sempre il sogno della musica, Teresa e Katres sono due facce della stessa medaglia, non le distinguo l’una dall’altra, l’una non esisterebbe senza l’altra.
Ci sono degli artisti o, più semplicemente, dei dischi nei confronti dei quali senti di avere un debito artistico?
K- Sentendo cantare Noa ho scoperto la potenza comunicativa della voce, quella voce che nasce da un bisogno estremo di comunicare e che per questo motivo emoziona e fa vibrare le corde dell’anima, sono sempre uscita in lacrime dai concerti di Noa e con il cuore colmo di bellezza. Di dischi che mi hanno lasciato il segno ce ne sono tanti ma due in particolare non posso non citarli e sono “Com’è profondo il mare” di Lucio Dalla e “Rumors” dei Fleetwood Mac.
Ascolti abitualmente musica? In questo periodo c’è qualcosa, sia a livello nazione che internazionale, che ti ha colpito particolarmente?
Stiamo vivendo tempi difficili. Il nostro paese fa fatica a decollare e a trovare un governo; il mondo è una polveriera, e da ultimo, la guerra in Siria sta mettendo a serio rischio la pace nel mondo. Hai mai pensato di introdurre temi politici e sociali nelle tue canzoni?
K- E’ una cosa che ho fatto in passato, non lo faccio da tempo, negli ultimi anni la musica è diventata per me un vero e proprio rifugio, l’ho utilizzata come fosse una sorta di diario personale scrivendo spesso di me e scrivendo in prima persona, l’ho utilizzata per parlare di quello che succede dentro di me piuttosto che di quello che succede fuori.
Chiudo questa intervista, ringraziandoti per la disponibilità e la simpatia. Un’ultima domanda, prima di salutarci: cosa c’è nel futuro di Katres?
K- c’è la voglia di continuare ad essere me stessa, lontana dalle mode, lontana dagli abbagli del successo, voglio continuare a raccontare la mia verità con la semplicità di sempre. Nel mio futuro vedo un viaggio, un periodo da dedicare alla scrittura in un posto lontano da casa, ci penso da un po’, chissà se riuscirò a realizzarlo.