Ella Marija parla parecchio, per essere in un paese dove l’inglese non è esattamente una lingua masticata dalla maggioranza della popolazione. Lo fa lentamente, scandendo le parole, l’accento neozelandese non costituisce un ostacolo insormontabile. C’è tanto affetto, nelle sue parole, una familiarità con i fan per nulla esibita, vissuta come un qualcosa di autentico.
Si mostra ovviamente eccitata dalla location (perché in effetti se sei nata ad Auckland e il tuo termine di paragone culturale sono gli Stati Uniti, che esistano castelli veri e propri rappresenta un dato di cui stupirsi), dall’incredibile devozione del pubblico e dice che, sostanzialmente, quello è l’unico posto in cui avrebbe voluto essere in quel momento.
Parla di numeri, di suonare davanti a 50mila persone come un traguardo ideale del divenire popstar. A lei non è mai successo, se non nei festival, e la domanda, con quella curiosità morbosa che caratterizza noi “giornalisti”, un po’ me la sono fatta: c’è forse una sorta di amarezza, di leggera recriminazione per una carriera che, seppure ricca di successi, non sta andando esattamente come le premesse di Pure Heroine avevano lasciato trasparire? Probabilmente sì, probabilmente no, in ogni caso non lo sapremo mai con certezza.
Quello che invece mi pare un dato meritevole di essere evidenziato è il seguente: stiamo parlando di un’artista che dopo avere conquistato le classifiche con un esordio che aveva scomodato negli elogi anche gente come David Bowie e Bruce Springsteen, confermato con un sophomore come Melodrama di essere una delle popstar più talentuose della sua generazione, se n’è uscita con un terzo capitolo totalmente spiazzante, poco immediato, con una componente Seventies e West Coast che non avresti mai detto appartenere al background di una ragazza di 25 anni che prima di allora aveva fatto tutt’altra roba.
Solar Power, arrivato oltretutto dopo quattro anni di silenzio discografico, ha diviso la critica e, fatta eccezione per Australia, Nuova Zelanda e, in misura leggermente minore, Gran Bretagna, ha venduto di gran lunga meno dei due predecessori. Facile che, nella contemporanea esplosione di artiste come Dua Lipa e Billie Eilish, il suo nome sia passato in secondo piano. Ma in effetti quel che conta è il percorso globale di una carriera, non i traguardi singoli. E allora ecco quello che non ti aspetti: che quello di Solar Power sia lo show migliore allestito da Lorde fino a questo momento, uno spettacolo di livello altissimo, quasi del tutto privo di sbavature, a superare completamente tutti i difetti che avevamo evidenziato all’epoca dei concerti di supporto a Melodrama.
Il castello scaligero di Villafranca, a pochi chilometri da Verona, è una location di grande fascino e negli anni è stata più volte utilizzata da gente come Arcade Fire, Damien Rice e Bon Iver, giusto per fare qualche nome. È la seconda data italiana di questo tour (la sera prima c’è stata Roma), la terza in assoluto nel nostro paese per un’artista che non abbiamo mai avuto occasione di vedere spesso. Nonostante questo, l’affluenza è piuttosto scarsa: ad occhio parliamo di 4mila persone, un numero di poco superiore al sold out di cinque anni fa al Fabrique, molto al di sotto di quello registrato al Carroponte di Milano due sere prima per Ariete.
Lasciando per una volta da parte ogni considerazione sulla nostra scarsa esterofilia e rinunciando alle battute sulla scarsa preparazione musicale dell’italiano medio, parliamo di cose belle: il pubblico è giovanissimo, età media di poco superiore ai vent’anni, parecchie centinaia hanno affollato i cancelli sin dalle prime ore del mattino nonostante il caldo assurdo, per conquistare i posti migliori e, una volta cominciato il concerto, non hanno mai smesso di inneggiare alla propria beniamina, producendosi in grida di entusiasmo ogni due per tre e, soprattutto, cantando ogni singola canzone (anche quelle dell’ultimo album) parola per parola. Una dimostrazione di affetto tale non me la ricordo neanche per il tour precedente e può voler dire solo una cosa: non sarà più il fenomeno del momento, non avrà più i numeri di qualche anno fa, ma la fanbase che ha consolidato in giro per il mondo (dubito fortemente che ciò che si è visto stasera sia un’eccezione) è in questo momento più forte che mai. E quindi, tornando al discorso di apertura, probabilmente ha ragione lei.
La serata è stata aperta da Marlon Williams, suo connazionale, una manciata di album all’attivo l’ultimo dei quali, Make Way For Love, risale al 2018 (esattamente due giorni prima sono però usciti due nuovi brani). La sua è una proposta tutto sommato classica, un cantautorato allegro, venato di Soul che mi ha ricordato in più punti una versione patinata di Mac De Marco. Canzoni non memorabili ma comunque piacevoli, eseguite ora alla chitarra, ora al piano, ora col solo ausilio di basi pre registrate (una scelta che ho trovato piuttosto infelice). Lui è simpatico e ciarliero, molto comunicativo e ad un certo punto fa una bella caduta dallo sgabello, provocando l’allegra reazione dei presenti. A livello vocale è decisamente dotato, nella scrittura un po’ meno ma non importa, è stata comunque una mezz’ora piacevole.
Cambio palco più lungo del previsto, il telo nero che copre lo stage cade una ventina di minuti dopo le 21 e rivela una scenografia sobria ma efficace: una scalinata di legno e una scala appoggiata obliquamente su un cerchio modellato come una grancassa di batteria: pochi e semplici elementi attorno a cui ruoterà tutto il concerto.
L’inizio è molto sobrio: c’è una chitarrista sul palco, accanto ad un’altra ragazza che se ne sta ferma, in una sorta di coreografia silenziosa. Lorde è all’interno della grancassa, così che ne possiamo vedere solo la silhouette. Canta “Leader of a New Regime”, non esattamente la più immediata del nuovo disco, poi esce allo scoperto a prendersi il primo grande boato del pubblico. A seguire, solo con l’ausilio delle basi, arrivano “Homemade Dynamite” e “Buzzcut Season”, a costituire un ponte ideale col passato.
Quello che succederà veramente lo si capisce solo dalla successiva “Stoned at the Nail Salon”, versione intensissima, al limite del commovente. Sul palco arriva una band di sei elementi, vestiti con degli eleganti abiti color ocra, strumenti a tracolla (tranne ovviamente batteria e Synth) e microfono auricolare, indispensabile per il lavoro (curatissimo) sulle seconde voci. Di base l’impostazione è questa, con la scala e il cerchio a costituire il fulcro della scenografia: ruotano spesso e lei sale a più riprese sulla scala per cantare, mentre la band le si sistema attorno, a volte in riga, a volte seduta sugli scalini e sparpagliata in giro, come se si trattasse di un falò sulla spiaggia.
È all’interno di tale cornice che si dipana uno spettacolo incentrato in gran parte sui brani di Solar Power (eseguito quasi per intero), i cui episodi godono di un arrangiamento scarno, fedele allo spirito della versione in studio, chitarre in primo piano e tante armonie vocali ma nel complesso un’intensità maggiore: le varie “The Path”, “Fallen Fruit”, “California”, “Mood Ring”, “Secrets From a Girl (Who’s Seen It All)”, hanno goduto di una resa superba e hanno a mio parere rafforzato il valore di un disco che è probabilmente molto più solido di quanto abbiamo un po’ tutti creduto in sede di recensione (che è poi forse la prova di come dovremmo lasciar sedimentare un po’ di più i giudizi, e lo dice uno che comunque si era espresso positivamente all’indomani dell’uscita).
La vera sorpresa comunque è la prova offerta da Ella Marjia: ricordo che ai tempi di Pure Heroine e Melodrama avevo sottolineato come ci fosse ancora tanto da lavorare in sede di presenza scenica e complessiva tenuta del palco. A questo giro il cambiamento è sorprendente: la sicurezza con cui domina lo stage è impressionante, il carisma sprigionato è notevole, nonostante non abbia l’atteggiamento spregiudicato di certe popstar è comunque assolutamente sicura e credibile, per non parlare poi di una prova vocale al limite della perfezione.
Il repertorio del passato è presente in dosi abbondanti, spesso riarrangiato ed eseguito dalla band alla luce del mood del nuovo disco. Il risultato è sorprendente, come accade su “The Louvre” o su una meravigliosa versione piano e voce di “Writer in the Dark”, brano molto raramente eseguito dal vivo, senza dubbio uno dei punti più alti del concerto.
Certo, avendo a disposizione questi mezzi, si rimane un po’ interdetti dal vedere che alcune delle vecchie cose vengano ancora proposte come una volta, vale a dire batteria, Synth e abbondante uso di basi. Per carità, il risultato complessivo non è male e titoli come “Perfect Places” e “Green Light” basterebbero da sole a tenere in piedi un concerto. Eppure, se si mettono a confronto con il vestito elegante di altri episodi in setlist, il risultato è alquanto impietoso e il senso di discontinuità abbastanza forte. Sono dettagli, certo, ma l’augurio è che al prossimo giro si tenga conto anche di questo.
Nel finale, “Solar Power” mostra tutta la sua magnificenza e “Oceanic Feeling” chiude il set regolare con un’eleganza senza pari, personalmente è stata in assoluto quella che ho rivalutato di più, una delle migliori in sede live.
I bis iniziano con una “Helen of Troy” proposta da una band in formazione ridotta, uno accanto all’altro a centro stage. Versione acustica, minimale e con un gran bel lavoro di voci, è stato il mio highlight assoluto della serata. Poi ovviamente c’è “Royals”, fatta alla vecchia maniera e cantata a squarciagola dai presenti; un momento sicuramente indispensabile ma che poteva essere giocato meglio.
Qui sarebbe finito tutto ma, in considerazione del fatto che ci troviamo in un castello, che siamo in Italia, che il pubblico è stato così affettuoso, ecc. ci viene offerta un’altra canzone. La scelta spetta a noi, ci dice Ella, e le opzioni sono tre: la raramente eseguita “400 Lux” (che infatti non viene presa in considerazione), “Team” e “A World Alone”. Vince quest’ultima (a guardare le scalette, è successa la stessa cosa la sera prima a Roma) che ha così il compito di chiudere un concerto che ricorderemo a lungo.
Ella Marjia Lani Yelich-O’ Connor ha scelto la modalità meno scontata per ripresentarsi sulle scene e, per quanto si è visto, ha vinto alla grande la scommessa. Forse ha davvero ragione lei: forse quello che conta non è raggiungere quanta più gente possibile ma rimanere fedele alla propria identità, portare avanti un progetto artistico in cui si creda veramente. Da qui in avanti non si potrà fare altro che crescere.