Nel 1969 Tim Buckley era già un giovane veterano del circuito folk nella tirannica Los Angeles. A 22 anni si era lasciato alle spalle tre album ben recensiti ma di scarso successo, un matrimonio durato il tempo di un sospiro, una ragazza incinta abbandonata, un figlio mai conosciuto. Al suo fianco erano rimasti l’eroina e il fedele chitarrista Lee Underwood, suo Orazio personale, l’unico capace di precederlo per evitargli spiegazioni massacranti.
Dopo tentativi con il folk acustico, con la canzone d’autore sulla falsariga di Dylan o Fred Neil, con il folk-jazz, per Tim era venuta l’ora di “affrancarsi”. Affrancarsi da stili che non riconosceva più come suoi, che non gli avevano dato notorietà né soddisfazione e che dopo Blonde on Blonde o Songs Of Leonard Cohen erano ormai approdati ad un livello di perfezione formale difficile da superare. Buckley decide di ricominciare; quasi da zero. Basta folk, basta con quella, bellissima, fusione di Miles Davis e William Turner che era Happy Sad, basta addirittura con la canzone. La sua voce poteva fare ben di più, la sua estensione, la sua dizione ricercata e modulata vanno alla ricerca di Berio e degli esperimenti magnetici con Cathy Berberian, di Ligeti, della spiritualità aborigena. Alienandosi ancora più di quanto già non avesse fatto negli anni precedenti, Buckley rinuncia, consapevolmente, ad ogni ambizione di successo e di classifica; mette da parte i sogni di gloria e di affermazione di sé presso il grande pubblico. Sceglie l’esilio.
Il giovane educato e perfino timido, ben vestito, che appariva sulla copertina del primo album era diventato una figura enigmatica, con lunghi capelli crespi, occhi tristi e interrogativi; come svegliatosi d’improvviso da un torpore lisergico. Tutt’attorno il bianco quasi virginale di Lorca segnato solo dalle trame contorte di alberi antichi. Cinque brani, pochissima melodia, poche canzoni; molta voce, qualche abisso. Paura.
Lato A, Lorca. Le tastiere spoglie e il perenne vibrato del piano elettrico costruiscono la più terrificante e scheletrica impalcatura sonora che la musica leggera aveva partorito fino ad allora. Una struttura ectoplasmatica sbiancata alla luce notturna e gelida di timbri strumentali scarnificati e deturpati da una smorfia distrofica e malata. Quando il brano si assesta idealmente su un riff discendente di 5 note, una reminiscenza “cool” in forma vestigiale, scevra di ogni abbellimento e quasi perversa così inserita su un inconsueto cromatismo puntato su un bizzarro 5/4, la voce sembra precipitare ad ogni ripetizione, eppure rimane sospesa ogni volta sul ciglio della paura. La voce del cantante rinuncia definitivamente alla parola, alla semantica, in favore dell’onomatopea, del fonosimbolismo, dell’assonanza, della spazialità più totale, della dilatazione estrema e deformante del fonema. Non esiste un “testo”, non esistono nemmeno le sillabe: esiste una modulazione quasi ininterrotta ed estrema, in una lingua che può essere un relitto di un paleolitico culturale come una premonizione di una nuova Babele del futuro. Una rinuncia definitiva alla forma canzone ad ancor più drastica alla parola in musica, ritenta superflua, fuorviante, nella migliore delle ipotesi graziosamente futile.
Sono i nove minuti più paralizzanti del “pop” dell’epoca: più di The End, più di We Will Fall, più di Heroin o Sister Ray. L’urlo acuto finale, seguito dall’abisso sul registro grave che chiudono il brano salgono per la spina dorsale come le ultime parole stentate di Kurtz: The horror! The horror!
La lieve dissolvenza restituisce il fiato per un attimo soltanto. Attoniti, ci guardiamo intorno; sollevare la puntina dal solco? Fuggire da quella stanza che ha ospitato questa musica, in cui ancora risuonano in lontananza gli ultimi fiati dell’organo? È come fuggire da una scena del delitto; in cui siamo le vittime. Ma il disco continua e dopo questo abisso incolmabile di terrore la chitarra di Underwood si intreccia ancora con la voce lentissima di Tim in una sorta di folk dilatato e irriconoscibile all’ombra di un leggero bordone di contrabbasso. Sembra un 45 giri a velocità dimezzata. Tutta la prima strofa è giocata sul registro più grave della voce, in un recitativo accompagnato che inventa nuove vocali appoggiandosi solo a fughe di basso e chitarra. La canzone sembra dovere sempre essere sul punto di cominciare davvero, ogni volta che le scale discendenti si esauriscono come gocce nel mare: ma la chitarra resta perennemente appena sotto la superficie della melodia, come gorgogliante, e la voce non risolve mai la strofa e non chiude mai un ritornello. È il momento dello stordimento al risveglio incerto dall’incubo. Un sapore dolciastro ed una luce tiepida, un dolce annegamento nell’alcol e nell’oppio, continuamente cadente, ripiegato, senza scheletro né colonna vertebrale. Potrebbe durare ore, giorni; forse è così: il tempo si arrende allo stupro che la voce ne fa ad ogni verso. Anonymous Proposition è il massiccio sedativo che lascia intontiti e disorientati, toglie la memoria e con essa almeno placa quel brivido che Lorca ha lasciato dietro di sé. Alla fine del lato A pare normale lasciare la puntina girare a vuoto nel solco a spirale che chiude il vinile. Avanti e indietro, autistica eppure elegante.
I Had A Talk With My Woman è una tregua sia dagli scenari di paura di Lorca sia dagli stordimenti di Anonymous Proposition; un atto di pietà del cantante verso I suoi ascoltatori; è una canzone, vera, comprensibile, fissata al suolo dal beat delle congas e colorata come sempre dalla meravigliosa melodia di Underwood, uno dei più grandi tra I chitarristi misconosciuti dell’epoca. Un frammento di Goodbye Hello, una chitarra acustica che ristabilisce l’armonia e l’accordo nell’impalcatura del pezzo. Non dura molto.
Con Driftin’ ritorna un umore scuro, pensieroso, a tratti dissonante, con un bellissimo motivo melodico discendente di chitarra che è l’unico principio di continuità di un brano di nuovo torpido, come un pensiero affannoso del dormiveglia, non focalizzato né chiaro eppure presente, addirittura incalzante. Un blues dilatato a tal punto da essere totalmente irriconoscibile; di nuovo è come se il flusso del tempo rallentasse, come il battito di un cuore che rallenta fino alla bradicardia estrema. Underwood si concede l’assolo spaziale di un busker di Maxwell Street seduto sul suo amplificatore che imita David Gilmour. Buckley esplora ogni registro vocale possibile, lo fa con un controllo e con una dizione rotonda e marcata impeccabili: la sua voce è lo strumento definitivo della sua arte. Nemmeno importa quanto dice: è la ripetizione ossessiva di I’ve been driftin’, declinata in mille modi sempre diversi, che si porta via tutto quanto. L’ultimo pezzo Nobody Walkin’ ripresenta le tastiere ma sotto tutt’altra veste; ancora un brano lunghissimo, fluente, continuo; ma questa volta aggressivo, scontroso addirittura funky, “negro” come lo era Gypsy Woman. Le deliranti vertigini di Lorca sono lontanissime: tutto il disco è assemblato come una quieta fuga dal primo brano, un suo esorcismo. Possessione e perdono nello stesso album. Al contrario dell’esordio dei Doors, in cui i pezzi appaiono attratti, come risucchiati, dall’enormità conclusiva di The End, in questo caso l’album è un lento ritorno alla vita dopo l’esperienza extracorporea di Lorca. Anonymous Proposition e Driftin’ sono gli psicofarmaci e l’alcol, Nobody Walkin’ è una scarica di adrenalina. Il ritmo delle percussioni ci riporta definitivamente sulla terra. La puntina torna a scorrere liquidamente fino al termine.
Poi, cosa fare? Ricominciare da capo significherebbe imbattersi di nuovo nel brano d’apertura; non farlo sarebbe rinunciare circa quaranta minuti di talmente eccelsa che sembra incredibile poterla riascoltare, di nuovo. Può diventare una droga, al peggio addirittura una necessità. È un disco che dovrebbe restare per un solo ascolto, poi dissolversi, sparire, concedere una unica possibilità. Invece è ancora lì, esiste veramente, esiste in questo stesso nostro universo. Avvolto dal suo candore virgineo, gelido. Una reliquia senza tempo, mai posseduta da generazioni di ascolti distratti, sospettosi, impaurita. Sta attorno a noi, ripete un bisbiglio; quel bisbiglio che sembra crescere minaccioso. Diviene un urlo.
L’orrore.
“Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.”
Edvard Munch