Cito testualmente: “L’eternità deve essere un’emozione profonda che si dissolve con la coscienza, come l’inverno nella primavera”.
Ho rubato questo passaggio dai pensieri trascritti nel booklet di questo che forse ad oggi - per quanto mi riguarda s’intenda - è la più bella esperienza musicale che arrivi dall’amico e compositore Max Fuschetto. Parliamo di quest’opera che ha intitolato “Mother Moonlight”: un disco di pianismo assai poco classico per quanto si dirà che l’orecchio profano sia coccolato da un vocabolario assai riconoscibile. Ma riconoscere non è conoscere come vivere non è l’esistere. È finemente ricamata la poesia di ogni ingrediente strumentale che all’anima del pianoforte si appoggia, forse ne cerca contatto, di quando in quando sembra anche trovarlo, ma che di base ne accoglie la voce e la elabora a suo modo, secondo il suo potere, secondo le sue possibilità.
Ed è così che a queste composizioni di piano eseguite da Enzo Oliva troviamo in colori velati le chitarre elettriche di Pasquale Capobianco, il violino di Eleonora Amato, il violoncello di Silvano Fusco, la dilruba di Enrico Falbo ed un clarinetto suonato da Franco Mauriello. E poi le sospensioni digitali, gli scenari che sono estesi, lenti, melliflui… c’è il tempo che scorre lento come melma che non annega ne offende, non ricopre e non sporca… è melma come gelatina colorata che si sagoma con dolcezza e sostiene il pensiero che prende forma tra immaginazioni e speranze.
La composizione strumentale di questo lavoro è maturazione di attese, quella maturazione che si conquista, penso io, quando il ricordo di infanzia ha generato sensazioni che, a loro volta, ci restituiscono immagini. Da queste Fuschetto pare attingere senza sosta e senza interessarsi troppo ai contorni probabilmente. Da queste pare anche di voler scappare. Oppure è anche vero che questo disco è un lungo cammino raggiungerle. Dalla filosofia spagnola di Maria Zambrano ci arriva forte quel concetto che insegna come la psiche arde dal bisogno di manifestarsi e, unitamente, di mascherarsi. Un gioco perverso ma inevitabile, l’esserci e il nascondersi, arrivare all’obiettivo e rivolgere il cammino a ritroso. Le maschere che confondono l’apparenza dialogano in un equilibrio precario con il bisogno di svelarsi agli altri. Così l’ascolto di “Mother Moonlight” sarà un’esperienza che vi invito a fare con silenzio e dedizione, dopo aver fermato il vostro tempo per il tempo necessario a catturare la luce e le ombre, il senso di ogni composizione ma anche la finzione che all’immaginazione serve per inventarsi una qualunque via di fuga. In fondo in questo lavoro si racchiude l’anima del bambino e quella dell’uomo adulto: ovvero la libertà totale di sovrastrutture e il mascheramento sistematico a favore di circostanza. In tutto questo suono sarà il riverbero l’unica grande verità che conterà, alla fine di tutto questo. Mettetevi in ascolto…
Il tempo. Per l’artista uomo e non musicista, se ti chiedessi cos’è il tempo?
“Io so che cosa é il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo“. Questo è S. Agostino che coglie il mistero di questa dimensione che ci avvolge totalmente ma di cui non sappiamo nulla.
La quotidianità, il lavoro, il giorno e la notte danno un ritmo all'esistenza. È questo un nastro che scorre. Poi ci sono altri nastri che si muovono, più lenti o più veloci e che si sovrappongono: gli incontri, i pensieri che ritornano, quelli che nascono e quelli che muoiono sostituiti da altri che ne cancellano il volto e il senso. Poi le idee che ci portiamo dentro. C'è quella ghianda che vuole diventare quercia. È un nastro, questo, che scorre ad intermittenza e a velocità alterne, ma lo fa da sempre; e riappare, come un'eruzione improvvisa, potente a volte, e va a ricompattare le fila della nostra esistenza intorno ad un'impresa, un progetto.
Cristoforo vuole andare verso le Indie immaginando una nuova rotta. Si ritrova da un'altra parte. Il mistero della creazione, del tempo che lavora per noi: ci avviamo decisi verso un'immagine, ci ritroveremo però qualcos'altro di fronte. Qualcosa che stupirà noi stessi. Meraviglia. Il tempo lavora per noi mentre noi pensiamo di lavorare per lui. Il tempo rimane mistero insondabile.
Parliamo del passato, ti va? Questo disco attinge al passato o lo ricostruisce con la maturità del vissuto futuro?
Ho avuto la fortuna di allevare due bambini, i miei figli. Vivere accanto a loro significa avere la possibilità di ripercorrere alcune tappe della nostra vita evolutiva. Un bambino che spiega, che racconta, che disegna, che inventa canzoni ... Avete mai visto come un bambino inventa una canzone? Comincia a fischiettare un motivo mentre cammina saltellando o gioca immerso nei suoi pensieri. Poi ci mette sù delle parole. Qualcosa di forte che spiega perché il suo mondo è bello. Se magari una parola è troppo lunga non ne sceglie un’altra, allunga il motivo perché è lui che detta le regole. Anche se viene fuori bellissima la dimentica facilmente in quanto non è ossessionato dal diritto proprietario, né dal copyright. Roba da psicotici quella. E non lo è perché vive nel presente, pienamente, e sa che domani ne inventerà una ancora più bella. Ecco, “Mother Moonlight” nasce da questo vivere il tempo al presente attingendo qua e là. La memoria non è un file rimasto in un computer che fotografa un momento credendo che sia la verità. La memoria rielabora quello che percepisce e che sa dandogli la forma attuale della verità, forma che rifugge la piattezza e la mediocrità delle psicobiografie per riconsegnare il mistero della creazione.
Venendo fuori dal mondo multietnico di “Sun Nà” oggi ci ritroviamo all’essenziale, al minimale. Asciugare la composizione cosa significa per te?
Arrivare ad avere uno stile significa che tutto quello che vedi, che senti che comprendi puoi tradurlo in un insieme coerente la cui superficie parlerà di te mentre tu parli di altro. In “Mother Moonlight” c’è la popular music di “Canzone”, il mondo africano dei ribattuti e delle poliritmie come in “Ting tang”, il cui titolo è un nonsense tipico del linguaggio infantile, la polifonia medievale, il blues di “The round trip”, le scale pentatoniche di “Occhi di conchiglia” e quella ricavata dal pentafonismo delle isole del sud est asiatico di “Nenia Astrale”. Ma anche il rock di “Sulla linea”. Non asciugo, non sottraggo. Per dare l'idea di un arco posso usare una linea curva o al suo posto un insieme di punti minimo che dia conto della forma a cui mi riferisco.
Restando sul tema ti lancio un input per un'analisi: lasci continuamente spazio e tempo al suono di manifestarsi e di dire la sua a voce alta, anche quando sta sussurrando un segreto. Una direzione ostinata e contraria ai tempi moderni del tutto subito…
Nessuna categoria oggi è appannaggio di qualcuno. Comprenderla o no nel proprio vocabolario non è di per sé un punto a favore o contro.
Il comporre dovrebbe venir fuori da un'esigenza interiore e manifestarsi secondo la forma più vicina allo spirito che la traduce in una prevalenza di suoni o di silenzi. Questo accade anche nel parlato. Più si cerca di spiegare in maniera semplice qualcosa di complesso più la parola rallenta. Poi c'è il silenzio e il sospendere usato in maniera poetica: mi viene in mente quel libro unico e meraviglioso di “Conversazioni in Sicilia” di Elio Vittorini.
Parafrasando il titolo di quest’opera sottolineo la parola Mother, Madre, Mamma… un po’ come origine, come personificazione dell’inizio, creazione. Cos’altro nasconde?
Il primo brano che ho suonato in orchestra è stato “Mother Goose Suite” di Ravel. Uno scintillio di colori, melodie originalissime. Credo che per il fatto che lo provammo per dieci giorni di seguito abbia condizionato la mia estetica musicale da quel momento in poi. Insieme ad altre cose naturalmente. Volendo realizzare un disco partendo dalla “poesia dell'infanzia” ho voluto che il titolo del mio lavoro riportasse alla fascinazione di queste cinque favole in musica realizzata da Maurice Ravel. “Mother Moonlight” è la luce lunare, un riflesso di un altro mondo, che dà voce, pur nella sua luce diafana, a un discorrere fantastico.
Max Fuschetto è anche un grande pianista. Però in questo disco ti sei fatto da parte. Perché al tuo posto c’è Enzo Oliva? Ma in generale, quanto è importante dare la propria scrittura in pasto ad altre mani per averne la voce? Un gesto di apertura infinita…
Non sono affatto un grande pianista, non sono proprio un pianista. Mi arrangio a suonarlo quando serve. “Mother Moonlight” è realizzato in una maniera differente dal pianismo più comune. C'è un continuo interplay tra la mano destra e la sinistra, un conversare a due voci che non tutti riescono a suonare. Io per primo. Avevo ascoltato Enzo qualche anno fa mentre eseguiva un brano del nostro amico, il compianto Marzio Rosi, e la sua naturalezza mi ha davvero colpito. Poi è dotato di due qualità difficili da trovare: la generosità e il coraggio. La bellezza della sua lettura è racchiusa tutta nei trentotto minuti di esecuzione che rilasciano mistero e la sensazione di un mondo compiuto.
Come hai scelto quelle poche altre voci per arricchire queste composizioni? Come si arriva per esempio a scegliere una dilruba piuttosto che un clarinetto?
Ho voluto rappresentare una inconsueta forse eccentrica musica da camera in cui gli altri strumenti, il violoncello, la chitarra elettrica, il violino realizzassero un riflesso, anche lisergico e deformato, della parte pianistica. Il pianoforte non accompagna, non interagisce. Rilascia una scia che è intercettata da altri corpi sonori che galleggiano nello spazio acustico. Che a prolungarla nel tempo poi sia una dilruba col suo archetto o un clarinetto può essere indifferente se è centrale invece il gesto, l'idea del riverberare.
Ringrazio Pasquale Capobianco, Silvano Fusco, Eleonora Amato, Enrico Falbo, Franco Mauriello che hanno prestato la loro “voce” per dar vita a questa idea.
Per chiudere vorrei puntare l’attenzione alla chiusa di questo ascolto che è intitolata “Canzone”. Forse uno dei momenti più alti. Personalmente ho rivissuto il ricordo della mia prima canzone…
“Canzone” l'ho scritto nelle vacanze di Natale tra il 2005 e 2006 quando è nato Angelo il mio primio figlio. È infatti un brano luminoso, semplice, con un accompagnamento giocoso fatto di due soli suoni che attraversa tutto il brano. L'unica cosa che posso dire è che anche ancora oggi mi attraversa un pensiero di gioia nel pensare che mi sia venuta fuori una cosa così ispirata in un momento tanto importante della mia vita.